I voti dei protagonisti della finale di Coppa Italia: Zakaria disorientato, elastico Cuadrado, Calhanoglu prezioso, Dzeko senza energie (a cura di Fabrizio Patania)
Il diagonale di Barella è un raggio laser, accecante come le luci dell’Olimpico. Forse la difesa troppo schiacciata della Juve non lo favorisce, perché non vede partire il tiro. Calhanoglu indovina l’incrocio su rigore.
Non attacca, dovrebbe difendere, ma il copione tattico lo esclude ancor prima dell’infortunio. Dopo quaranta minuti chiede il cambio.
Entra e si scatena, dimostrando di essere indispensabile. Riapre la partita, correggendo in rete il sinistro di Alex Sandro. Segna da opportunista, rifinisce, corre come un mediano. E’ sua la percussione che porta, da un angolo a favore dell’Inter, al raddoppio in contropiede di Vlahovic.
L’olandesone, preferito a Bonucci, tampona Dzeko. Non riesce a fermare Lautaro e il raddoppio di marcatura di Bonucci è fatale. Poi butta giù De Vrij e piega la finale a favore dell’Inter. Disastro.
Il vecchio Giorgione, anima e cuore, tira su la Juve e trasmette gli impulsi giusti per scatenare la reazione. Gioca benissimo d’anticipo, accorciando il campo. Si arrende e deve uscire per un nuovo infortunio al polpaccio. Non ci voleva al passo d’addio.
Gioca con un gamba sola, ma Allegri non può bruciare Miretti e non ha altri da mettere in campo quando si fa male Chiello.
Non ha più un certo tipo di esuberanza, ma conserva il mestiere e tira fuori il sinistro che permette alla Juve di tornare dentro la finale.
Entra nella bolgia dei supplementari.
È l’elastico di Max. Terzo attaccante, difensore laterale, centrocampista: buono per ogni modulo, come un vestito quattro stagioni.
Non ha tempi di gioco e idee per organizzare la manovra e resta disorientato in partenza. Neppure usa troppo il suo fisico per limitare Calhanoglu.
Torna dopo un mese, dovrebbe aggiungere raziocinio, ma la finale è sfuggita a ogni logica.
Vale lo stesso discorso fatto per Zakaria. È un incursore, non un costruttore di gioco e si vede benissimo nei primi venti minuti in cui la Juve sbanda. Poi si riassesta e almeno ha la condizione per reggere sino in fondo.
È il più fresco e ispirato. Va su e giù per il campo senza smarrire lucidità e precisione. Il suo appoggio di petto a Dybala, nell’azione del 2-1, è un gioiello. Allegri lo richiama perché non ha autonomia sufficiente.
La difesa a tre, con il suo ingresso, dura poco. Stende Lautaro, provocando il rigore che rianima l’Inter.
Un trequartista del suo estro votato alla marcatura di Brozovic sembra uno spreco, perché contrasta poco il croato e si fa vedere solo quando deve giocare a calcio. Ci prova due volte, rifinisce l’occasione più limpida a beneficio di Vlahovic e poi lo manda in porta per il gol del sorpasso. Da quel momento, ogni pallone è Joya. L’unico capace di inventare e di creare pericoli. Sicuri, alla Juve, di non volerlo trattenere?
Non è semplice entrare, ma neppure sembra il giocatore adatto per riportare ordine.
È un corpo a corpo entusiasmante con De Vrij e DV7 non molla. L’unica volta in cui vede la luce, nel primo tempo, trova la mano di Handanovic. Dopo l’intervallo ci mette ancora più foga e prepotenza. Firma il gol del 2-1, ma è solo un’illusione e non basta alla Juve.
È il re della Coppa Italia. Nel suo stadio Olimpico, riesce a battere un’altra volta Allegri (terza finale su quattro), alzando il secondo trofeo stagionale e il quinto nella brevissima carriera di allenatore. Un predestinato. Un’evoluzione della scuola italiana nel solco del pragmatismo e con un’identità precisa di gioco.
Se Barella sblocca il derby d’Italia, Samir prova a congelarlo con un paio di interventi decisivi su Vlahovic e De Ligt. Il tocco di Morata, sul sinistro velenoso di Alex Sandro, lo spiazza. Riesce a murare Vlahovic, lanciato in contropiede, una volta ma non la seconda. Ma la paura passa presto e il capitano sloveno alza un’altra Coppa.
Più terzino di spinta che difensore centrale. Il suo movimento, spingendo più su Darmian, favorisce l’Inter nella costruzione dal basso.
Il suo ingresso è la vera chiave del controsorpasso dell’Inter, perché avanza come una scheggia e cambia la partita, facendo la differenza sulla fascia sinistra. Un uomo in più. Suo l’assist per il 4-2 di Perisic.
Sino all’intervallo contiene Vlahovic, scegliendo ogni volta il tempo giusto per andare a murarlo. Quando sale la pressione bianconera, anche l’olandese entra in sofferenza e soffre il duello con DV7. Ma dura pochi minuti e riesce persino a guadagnare il rigore del 3-2, steso dal suo amico De Ligt, partner in nazionale.
Inzaghi sceglie D’Ambrosio al posto di Bastoni e lo sloveno scala sul centro-sinistra, preoccupandosi solo quando nella sua zona entrano Dybala e Bernardeschi. Con l’ingresso di Dimarco torna alla posizione abituale.
È disciplinato, fa quello che gli chiede Inzaghi, ma non ha l’esuberanza di Dumfries e incide poco.
Aggiunge fisicità, muscoli e centimetri quando c’è bisogno di andare a fare a sportellate nell’area bianconera.
Il gol è un capolavoro di tecnica, di intelligenza e di visione anticipata del gioco. Salta Cuadrado, si accentra, nessuno esce a chiuderlo e vede lo spazio per provarci, inventando un tracciante che s’infila nell’angolo opposto. Corre senza mai fermarsi.
Nel palleggio, nell’appoggio, nella gestione è il centrocampista a cui l’Inter può affidarsi nei momenti complicati. Dagli undici metri trasforma un rigore pesantissimo.
Esperienza, contrasto, saggezza. Cambio prezioso.
È un esterno pazzesco, imprendibile. Leggerezza nel dribbling, cross scodellati a centro area con il compasso. E poi stacca di testa in terzo tempo, come un cestista, per andare a recuperare il pallone che finisce per provocare il rigore del pareggio. Il 3-2, dagli undici metri, lo mette dentro con freddezza. La chiude segnando un gol da favola: palla all’incrocio. Chapeau.
Bosniaco in versione esangue. Svuotato e senza energie, neppure l’Olimpico lo rianima.
Rispetto a Dzeko, lega meglio il gioco con Calhanolgu e Dimarco, consentendo a Lautaro di muoversi da centravanti.
Settanta minuti e passa in apnea, ma il Toro si sveglia quando serve e va a catturare il pallone buono per guadagnare il rigore. De Ligt non lo prende, Bonucci lo stende. Non accetta, sul filo del novantesimo, la sostituzione, protestando con Simone.
Inzaghi lo mette dentro pensando forse alla Supercoppa. Questa volta non ha bisogno dei guizzi del cileno.