Basta la parola: Rivera. E si apre un romanzo popolare del calcio italiano e mondiale che non ha ancora uguali. Sì, basta la parola, o meglio ancora la sua semplice identità, Gianni Rivera, nato in un paesino in provincia di Alessandria nell’agosto del 1943, per cogliere la grandezza del personaggio e la maestosa statura della sua limpida classe. Gianni Rivera è stato il vero fondatore del milanismo moderno perché attorno alla sua figura è stato capace di riunire il popolo dei tifosi rossoneri così da guidare alcune crociate, una volta destinata contro il suo stesso presidente (il petroliere Albino Buticchi, travolto dalla contestazione, fu costretto a cedere e a farsi da parte), poi contro gli arbitri (le sue interviste al peperoncino fecero scattare una dura squalifica dopo una partita a Cagliari diretta dall’arbitro Michelotti) e infine contro il vate del giornalismo sportivo dell’epoca (Gianni Brera lo battezzò “l’abatino” e ci fu bisogno dell’intervento diplomatico di Nereo Rocco per riappacificare i due). La spiegazione non è poi così complicata. Perché Gianni Rivera, arrivando dopo l’ultimo Pepe Schiaffino, e raccogliendo la maglia numero 10 di quel Milan, riuscì nell’impresa epica e forse ancora irraggiungibile, di guidare la squadra a vincere scudetti e i trofei europei e mondiali più prestigiosi così da riportare in quota il calcio italiano uscito a pezzi dalla tragedia di Superga, la morte del Grande Torino. Da brividi i suoi duelli a distanza con Eusebio del Benfica (finale di Coppa Campioni a Wembley nel 1963 vinta con due gol di Altafini lanciato proprio da Gianni) e poi con l’Ajax di Cruyff (finale a Madrid del 1969 che gli valse la conquista del Pallone d’Oro). Prima di congedarsi dal prato di San Siro compì l’ultima prodezza. Fu qualcosa di molto suggestivo perché riuscì nell’impresa di far sgomberare il secondo anello dello stadio, chiuso per i lavori in corso, e far disputare regolarmente la partita Milan-Bologna decisiva per assegnare lo scudetto della stella. Sembrò replicare la fama di Mosè con l’apertura delle acque!
L'azzurro di Gianni
Anche in Nazionale Rivera non è stato uno dei tanti ma soltanto Rivera. È stato il profeta di un calcio finalmente offensivo in lotta perenne con l’idea di una scuola che privilegiava la difesa e il contropiede. Fecero epoca i suoi attacchi a quei ct che aprirono le porte a Picchi libero e che con questa scelta toglievano forza e dinamismo al gioco offensivo del quale Rivera era un ispiratore inarrivabile. Con lui divennero bomber gente come Pierino Prati ma persino terzini come Aldo Maldera. Dal suo piedino magico partivano i suggerimenti e c’era solo la difficoltà di colpire la palla al momento giusto per depositarla in rete. Per lui, come avvenne poi tra i tifosi del Milan, ci fu un’autentica rivoluzione anche in Nazionale (60 le presenze fino al Mondiale delusione del 1974) al ritorno dal Mondiale del Messico nel quale gli azzurri s’inchinarono soltanto dinanzi a sua maestà Pelé. Valcareggi, il ct reo di aver “accettato” la soluzione della staffetta suggerita da Walter Mandelli, dirigente capo dell’Italia, fu costretto a fuggire da un ingresso di servizio dell’aeroporto Fiumicino di Roma al ritorno dal Messico a causa dei 6 minuti lasciati a Rivera durante la finalissima col Brasile (giugno 1970). Motivo arcinoto: nella semifinale contro la Germania di Beckenbauer, poi definita la partita del secolo con una targa che la ricorda ancora nello stadio messicano, Gianni Rivera segnò il gol del 4-3 che diede a quella sfida un’aura di immortalità.
Una vita per il Milan
19 anni di Milan (501 le presenze collezionate in Serie A) di cui 12 da capitano raccogliendo l’eredità di Cesare Maldini prima di affidare quella fascia a Franco Baresi, infine una carriera meno brillante da dirigente, ruolo da vice-presidente. Giussy Farina, il presidente che lo schierò al suo fianco per avere la copertura presso media e tifoseria, ne scolpì l’abilità imprenditoriale con una famosa frase: «Se Gianni mettesse su una fabbrica di cappelli, i bambini nascerebbero senza testa!». Di fatto partecipò Rivera alla stagione disgraziata della retrocessione in Serie B. Con l’avvento di Silvio Berlusconi, lasciò il club di via Turati e si diede prima agli affari (ramo assicurazioni) e poi alla politica.
Gli ultimi anni
Il cordone ombelicale con il Milan rimase saldo e si nutrì in tutti quegli anni a dispetto della lontananza (sposato si è trasferito a Roma) fino a qualche tempo fa quando decise di far causa al Milan di oggi «per lo sfruttamento della sua immagine nei locali del museo del club». Ha riscosso verdetti contrari in tutti e tre i gradi di giudizio italiano e non ha desistito dal rivolgersi alla giustizia europea. È stato questo il vero motivo per il mancato invito alla festa dei 125 anni. All’età di 80 anni, esibiti con eleganza innata, ha deciso di laurearsi allenatore al super corso di Coverciano rilasciando interviste nelle quali ha apertamente confessato di voler guidare la Nazionale. È ancora convinto di esserne capace. E c’è una sola spiegazione in materia. Perché sa di essere stato Gianni Rivera.