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Antognoni, 10 alla fedeltà

Il capitano della Fiorentina è rimasto un simbolo dei tifosi: è stato il più amato di tutti. Giancarlo ha quasi dato la vita alla Viola: dopo lo scontro con Martina sembrava morto ma ha avuto la forza e il coraggio di ricominciare

Giancarlo Antognoni, ovvero la Bandiera di Firenze che si trasforma in bandiera vera, fatta di asta e stoffa, e che sventola ancora oggi fra i ragazzi della Curva Fiesole. Ragazzi che non erano nati quando il Capitano lasciò la Fiorentina, il 17 maggio 1987, uno a zero per i viola contro l’Atalanta. Era la sua partita numero 429 con la maglia viola, aveva il 10 sulle spalle e accanto a lui giocava un ragazzino con l’11, Roberto Baggio, che ereditò da Antognoni la maglia col 10. Sono passati quasi quarant’anni da quel pomeriggio doloroso per i fiorentini, ma ancora oggi, nella curva dal cuore caldo di Firenze, spunta un bandierone con l’effige del Capitano e con la scritta: “Onora il padre”. Dal giorno in cui ha debuttato in Serie A, sul campo di Verona, fino al giorno del suo addio, Antognoni è stato la Fiorentina. Per quindici anni, contro tutto e contro tutti, contro gli incidenti che hanno martoriato la sua carriera, contro una certa critica nordista. Silenzioso ma determinato. Lo amava chi amava la classe nel calcio. Il giorno del suo esordio, sulle colonne di Tuttosport, Vladimiro Caminiti scrisse queste parole: “Ha debuttato un ragazzo che gioca guardando le stelle”. Oltre che poesia, in quella frase era sintetizzata la verità del suo gioco. Giancarlo correva con la testa alta e la palla attaccata al piede, scrutava l’orizzonte viola che spesso era desolante. Fino all’arrivo dei Pontello, il Capitano ha giocato in squadre modeste sul piano tecnico. Fra lui e il resto della Fiorentina la distanza era enorme e non tutti i suoi compagni potevano capire il suo calcio.

Antognoni unico dieci

Unico Dieci, Antonio unico dieci” cantano in curva Fiesole, oggi emigrata nella Ferrovia per i lavori al Franchi. Ne ha avuti di grandi 10 la Fiorentina, uno dei primi è stato Miguel Montuori, il 10 dello scudetto del ‘56, poi Giancarlo De Sisti che portava quella maglia nel campionato del secondo scudetto, e ancora Roberto Baggio, Manuel Rui Costa, Adrian Mutu, oggi Albert Gudmundsson, che avrà tempo per dimostrare di poterci stare in questo fantastico gruppo. Forse Antognoni non è stato il più forte, di sicuro è stato il più elegante in campo. Ma la gente lo ha amato, e ancora oggi lo ama, per la sua fedeltà. Avrebbe potuto giocare nelle squadre al top degli anni Settanta e Ottanta, poteva andare alla Roma, alla Juventus, all’Inter, avrebbe vinto qualche scudetto, avrebbe corso per il Pallone d’Oro. E invece ha scelto Firenze, perché la sente casa, la sente famiglia. Prima che i Pontello costruissero una squadra in grado di lottare per lo scudetto, la gente riempiva il Comunale di Campo di Marte solo per veder giocare quel biondo con la palla al piede. Era uno spettacolo. Quando il Capitano lanciava, erano traiettorie esatte, cinquanta, sessanta metri, pescava sempre il suo attaccante. È stato un capitano mite, di quelli che nello spogliatoio parlano poco, ma si fanno sentire. Non ha mai partecipato a fronde, non ha mai alzato la voce con un allenatore. Non è mai stato fortunato. Quasi tutte le bandiere di cui parla questo giornale hanno vinto più di lui.

Antognoni, Firenze nel sangue

Giancarlo si è dovuto accontentare di una Coppa Italia nel ‘75 e nello stesso anno di una Coppa di Lega Italo-Inglese. Eppure ha resistito a ogni tentazione, a ogni possibilità di riscatto perché altrove non sarebbe stato come a Firenze. Ce l’aveva nel sangue Firenze. E ce l’ha ancora oggi. Il suo nome è stato il primo iscritto nella Hall of Fame viola nel 2012, sei anni dopo è entrato anche nella Hall of Fame del calcio italiano. Ha vinto il Mondiale dell’‘82 saltando la finale per infortunio, dopo aver segnato contro il Brasile un gol splendido che gli è stato annullato. Non è mai stato baciato dalla buona sorte, è morto sul campo in quel drammatico scontro col portiere genoano Martina ed è subito risorto. Quando rientrò col Cesena, la Fiesole lo accolse con uno striscione lungo tutta la curva: “Forza Antonio, l’Inferno è finito, il Paradiso ci attende”. Ha lasciato tibia e perone contro la Samp, anche allora è tornato e in curva ha ritrovato l’amore della sua gente: “Niente ti ha distrutto. Sei come il sole, risorgi e illumini tutto”. Era difficile staccarsi da una città come Firenze, una città che non gli ha mai voltato le spalle, che lo ha amato forse perfino più di quanto amasse la squadra. Non ha trovato lo stesso affetto e tanto meno la stessa riconoscenza nelle ultime proprietà della Fiorentina. La separazione è stata dolorosa. Oggi, compiuti 70 anni, Giancarlo è rientrato in federazione, è il team manager della Under 21. Chi lo vuole salutare e abbracciare sa dove trovarlo, nel bar vicino a Coverciano, in mezzo ai suoi amici di sempre. È incanutito, ma il fisico è in forma perfetta. Se gli metti una palla al piede, parte un lancio di sessanta metri. È ancora Antognoni.

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