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"L'altra" Ambra, l'oro di Sabatini

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"L'altra" Ambra, l'oro di Sabatini Getty Images

Un docufilm racconta la paralimpionica: "Ho avuto due vite, la me con due gambe ha costruito un bel futuro per la me che sono adesso. Mi devo dire grazie"

C’era una volta un’Ambra, poi una macchina le è andata addosso e le ha portato via una gamba, ma non i sogni che erano d’oro e resistenti. «Mi sono aggrappata alla vita», lo dice oggi, e forse l’ha pensato allora mentre cercava di restare a galla in un mare di sangue. Quella ragazza aveva 17 anni e moriva e rinasceva in un’altra Ambra. Due anni dopo l’incidente, Ambra Sabatini è andata a prendersi l’oro olimpico dei 100 metri a Tokyo 2020. Aveva 19 anni. Bella come una bambola di porcellana; ostinata e caparbia come una formica, ha ripreso la sua vita per il collo e ne ha fatto un capolavoro che il docufilm, “A un metro dal traguardo” del regista Mattia Ramberti, certifica. Il film racconta di Ambra con due gambe, pattinatrice, pallavolista, mezzofondista, del primo incidente, e poi del risveglio “dell’altra” Ambra senza una gamba, nuotatrice, ciclista ma soprattutto centometrista paralimpionica, fino al nuovo incidente: la caduta a un metro dal traguardo, appunto, dal secondo oro a Parigi 2024. «Si pensa che lo sport sia vincere le medaglie, ma il vero sport è rialzarsi, tutto il resto è rumore di fondo». E Ambra si è rialzata per correre verso Los Angeles 2028 e riprendersi l’oro sfumato. Ventitré anni, un’allegria coinvolgente, un’ironia spiazzante, dentro al suo abito leggero che le fascia il corpo e la fa statua, l’azzurra porta in giro il suo film che narra la bellezza di essere viva e l’amore per lo sport da cui è risorta. E’ di Livorno e col mare ha un rapporto speciale, ama la pizza, preferisce lo sport individuale perché può prendersela con se stessa se qualcosa non va. Ha tre protesi, quella per correre, quella da tutti i giorni e quella col tacco che usa solo nelle occasioni; e in gara va rigorosamente truccata: come diceva Coco Chanel, mai senza il rossetto.

Cosa ricorda dell’incidente in moto?

«Tutto. Ero in scooter con mio padre, tornavo dall’allenamento di atletica, una macchina ha invaso la nostra corsia e la gamba è rimasta incastrata. Sono stata fortunata perché dietro di noi c’erano i Vigili del fuoco, per pura casualità, e il soccorso è stato immediato, uno mi ha bloccato l’emorragia sennò sarei morta, altre coincidenze poi mi hanno salvato e aiutato a guarire velocemente. In un anno ero già in pista a correre».

Si è mai chiesta perché a me?

«Sì, e mi sono data la risposta: perché forse ero la persona migliore a cui potesse capitare».

Quando ha capito che ce l’avrebbe fatta anche con una gamba sola?

«Nel letto dell’ospedale ho trovato la mia luce: lo sport. Mi sono detta “ok mi è successo questo”, e mi sono appoggiata all’atletica, la mia passione. Volevo ritornare alla vita di tutti i giorni, inseguire il mio sogno. Ci sono riuscita anche guardando le immagini di altri atleti. Lo sport è un messaggio che si passa di voce in voce, di storia in storia. E poterlo condividere ha aiutato me e penso che possa aiutare gli altri».

Com’è stato tornare a correre?

«Ho corso davvero quando mi è arrivata la protesi. All’inizio non è stato facile, poi mi sono sentita libera».

Qual è la cosa che le fa più effetto del docufilm?

«Parigi. Il film racconta tutta la mia storia, ma si concentra parecchio sul percorso verso la Paralimpiade 2024. E’ stata una vera e propria missione, piena di cadute e di riprese. Il film forse mi ha aiutato a metabolizzare la caduta, la vedo come parte di un percorso verso Los Angeles e mi dà forza. Ricordo l’attimo prima: avevo la stessa sensazione, provata ai Mondiali di Parigi e a Tokyo, di consapevolezza di aver quasi toccato la linea del traguardo, e poi mi sono sentita cadere. Ho provato paura, shock, mi dicevo “no cavolo è successo” e sono andata dai miei a trovare conforto. Poi ho visto che ho colpito Monica (Contraffatto, ndr): panico, ero mortificata. Le ha detto “mi dispiace”, ma lei era tranquilla e più preoccupata per me. Fortunatamente il ricorso le ha dato il bronzo, c’è stato un lieto fine che a me ha tolto un po’ di senso di colpa».

Qual è lo scopo di questo film?

«A questo progetto sono legate speranze, sogni e lavoro, per me è un’emozione indescrivibile. Mi sono sentita subito a mio agio, è stata un’esperienza di crescita per me. Sono molto timida, però mi sono aperta. Vorrei che quante più persone conoscessero la mia storia per trarne qualcosa di positivo, ispirare ragazzi e ragazze a fare sport e inseguire le proprie passioni, e anche sensibilizzare sulla sicurezza stradale. Io sono stata fortunatissima, super miracolata per essere sopravvissuta, ma non va a finire sempre bene».

Dopo l’incidente di Parigi invece cosa è successo?

«Guardo a Los Angeles 2028. Prima però ci saranno i Mondiali a fine settembre, mi sono posta nuovi obiettivi, ho iniziato a fare salto in lungo, mi sono trasferita, ho cambiato vita e allenatore, quindi sono all’inizio di questo quadriennio verso Los Angeles, sono contenta di avere tempo perché c’è tanto da costruire ancora».

Per Los Angeles la squadra è da rifare?

«Sui 100 metri ci sarò solo io. Dispiace. Contraffatto si ritira e sicuramente mancherà, ma non solo nel grande evento, anche nelle gare nazionali, nei meeting: era bello ritrovarsi e gareggiare assieme».

Anche la famiglia è una squadra?

«E’ la mia colonna portante, i miei genitori fin da bambina mi hanno supportato nella mia passione senza mettermi pressione e nel momento più duro sono stati lì, cercando di rimanere forti per me. La mamma mi coccola con le sue premure. Il babbo invece entra più nelle mie cose, nell’aspetto tecnico, è lui che mi ha trasmesso la passione per lo sport».

E gli amici come vivono la sua popolarità, il suo cambiamento?

«Penso di aver sempre mantenuto un profilo basso. Ho cercato di coinvolgerli. Mi piace che le persone accanto a me siano partecipi di quello che faccio».

Quanta fatica c’è nell’essere atleta?

«Mi alleno tre ore al giorno per sei giorni alla settimana. Succede a volte di non avere la motivazione al cento per cento, lo stesso vado al campo e cerco di dare il massimo. Forse il più grande valore di un atleta si dimostra con la costanza, la disciplina più che coi colpi di scena».

C’è solo lo sport nella sua vita?

«Sto provando anche l’Università, sono iscritta a Scienze della comunicazione online. Però il focus è sull’atletica, la carriera di atleta dura poco e adesso so che devo dare il massimo su questo. Mi piacciono anche altri sport, ne pratico diversi: nuoto, pattinaggio, bicicletta. Amo stare all’aria aperta, andare al mare, ascoltare musica e vedere film».

Che rapporto ha col suo corpo e con l’imperfezione?

«Con il mio corpo ho sempre avuto un rapporto speciale, per quello che mi permetteva di fare nello sport. Quando ho avuto l’incidente ho temuto di non avere più quella sintonia con me stessa, ma ho trovato un nuovo equilibrio. Penso che sia la diversità a rendermi, come dire, un po’ speciale, un po’ originale. Ecco, vedo la disabilità come un’originalità. Insomma, se la disabilità fosse percepita così, anche gli strumenti che si utilizzano, come la carrozzina o le protesi, sarebbero come un paio di occhiali...».

Di cosa è golosa?

«Sicuramente di pizza. Qualsiasi gusto».

Lei è di Livorno, cos’è il mare per lei?

«Quando non ce l’ho davanti mi manca. In acqua mi sento in pace. Ricordo la mia prima immersione con le bombole è stata un’emozione incredibile, perché laggiù sei in un altro mondo».

Chi è il suo idolo?

«In realtà sono tanti atleti. Antonella Palmisano, però, è una collega che stimo tantissimo».

Nella sua vita c’è spazio e tempo per l’amore?

«Oh sì, la voglia c’è, ma manca la materia prima...» (ride, ndr)

Usa i social?

«Sì, cerco di condividere qualcosa della mia vita». Lei si cura molto, anche per gareggiare: le unghie, il trucco fanno parte di un rito? «La pista è un momento di grande visibilità, quindi sistemarmi per quell’occasione è una cosa che mi piace, è un vezzo. Sono sempre stata così. Farmi le trecce anche fa parte del rito».

E’ più da gonna o da pantaloni?

«Preferisco la gonna, è più comoda, mi sento libera».

Quando si rivede con la gamba nei filmini si riconosce?

«Sì, riconosco una me, è come se avessi vissuto due vite. La me che aveva due gambe ha costruito un bel futuro per questa me. Sento di dovermi dire grazie».

Le manca la sua gamba?

«Adesso no. Diciamo che con lei non so se sarei dove sono adesso».

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