Giovanni Nino Benvenuti se ne è andato via per sempre dopo una lunga, inconscia sofferenza. Negli ultimi tempi ha trascorso ore, giorni, mesi, anni abituandosi lentamente al rumore del silenzio. Ieri ha chiuso gli occhi per non riaprirli più. Non è stato solo un grande pugile. È stato una lunga emozione.
Per il popolo della boxe era Nino, e basta. Come se nel mondo ce ne fosse uno solo. Un predestinato, un campione fin da quando ha infilato attorno alle mani un paio di calzettoni pieni di stracci fingendo fossero guantoni, ha appeso alla trave della cantina di casa un sacco di juta pieno di frumento, ha tirato una corda fra le tre colonne nel seminterrato immaginando fosse un ring. Si stava inventando uno sport che non conosceva. Sapeva di doverlo fare, il cuore gli imponeva di dare una gioia a papà Fernando, che da ragazzo sognava di salire sul ring ma le paure del genitore glielo avevano impedito.
Tecnica raffinata, scaltro stratega, capace di risolvere situazioni scabrose con un solo pugno. Ma anche abile provocatore. I risultati erano alla base del successo, il personaggio contribuiva a ingigantirne la figura.
Ha trascorso l’intera vita tenendo sulle spalle il peso della leggenda. Ha dovuto mascherare gli errori, fare un mezzo sorriso anche quando avrebbe voluto piangere. Ha gestito con abilità ogni decisione sul ring, non sempre è riuscito a fare lo stesso nei rapporti quotidiani. Ha inseguito per tanto tempo una pace solo sognata. L’ha cercata anche nel lebbrosario di Madras, in India, vivendo con passione l’esperienza del volontariato.
Mi raccontava.
«Non sono uno che si perde per strada. Posso avere delle esperienze negative, ma rimango fedele a me stesso. Non posso certo rinnegare o smentire il mio passato. Posso però cercare di capirlo. Cerco una risposta al perché di certe mie decisioni, al perché di certi atteggiamenti. Capisco gli errori che ho commesso, ma ancora non riesco a comprendere il motivo per cui li ho fatti. Rivedo il film della mia vita. E sono sereno».
Il primo passo nella storia lo ha fatto ai Giochi di Roma ’60. Oro e Coppa Val Barker come miglior pugile dell’Olimpiade. Sul podio, un bacio verso il cielo nel ricordo di Dora. La mamma, morta ad appena 46 anni.
Le tre sfide per il mondiale dei medi con Emile Griffith sono state accompagnate da un’imponente partecipazione popolare. La prima, soprattutto.
Era in programma a New York, 17 aprile 1967, alle 4 del mattino, fuso italiano. Il governo, temendo un assenteismo di massa al lavoro, vietava la diretta tv. Gli italiani rispondevano mettendo la sveglia. In diciotto milioni erano lì ad ascoltare la radiocronaca di Paolo Valenti.
È diventato un fenomeno sociale, uscendo dai confini dello sport. Ci ha portati tutti all’America, come dicevano i migranti dell’epoca. Tre i voli charter organizzati dai tifosi. È entrato nelle nostre case, ci ha conquistati. È diventato un divo. Sono ancora tanti gli over 60 che ricordano, con emozione e qualche lacrima di nostalgia, la notte vissuta accanto al loro papà. Una notte in cui avevano tifato per Nino come se fosse un amico o addirittura un parente.
Il match è stato duro, spietato. Un montante destro al secondo round e Griffith andava giù. Poi era Nino a toccare il tappeto nella quarta ripresa. Perdeva l’equilibrio, il colpo gli arrivava all’orecchio. Cadeva dritto. Nella testa, un solo pensiero. La paura di non essere più in grado di rimanere in piedi. Sentiva un fischio continuo, l’equilibrio era instabile, doveva far passare il tempo. Ce la faceva.
Alla fine il verdetto lo premiava.
Suonavano le sirene delle navi ancorate al porto di New York. Gli emigranti tiravano fuori mille bandiere italiane, finalmente potevano vantarsi con i compagni di lavoro.
«Sì, sono italiano, come il campione del mondo».
Molte coppie, negli anni, racconteranno di avere fatto l’amore proprio quella notte, e di avere chiamato Giovanni il bambino nato nove mesi dopo.
Per completare il disegno della grandezza pugilistica e sconfinare nella leggenda, aveva bisogno di rivalità intense. Tre nemici eccezionali lo hanno aiutato a trovare un posto stabile nella memoria collettiva.
Di Griffith ho già detto.
L’uomo senza paura, quello nato per combattere, è stato l’avversario con cui ha ingaggiato un dualismo da brividi. Sul ring, ma anche in Tv, sui giornali. Il popolo della boxe parlava ovunque di Nino e Sandro Mazzinghi. Al lavoro, a scuola, nei bar, nei circoli, in strada, ai giardini.
Il terzo “nemico” l’ha incrociato a fine carriera. Carlos Monzon era un fuoriclasse. Nino era avanti con gli anni. La sconfitta nel match romano ha intristito chiunque lo amasse. Piangevano tutti. A bordo ring, sulle gradinate come nell’ultimo anello.
A Montecarlo, nella rivincita, ha recitato l’ultimo atto di una grande carriera chiusa con un gesto di profonda amicizia, il lancio dell’asciugamano davanti a un pugile in evidente difficoltà, del suo manager di sempre Bruno Amaduzzi.
Era l’8 maggio del ’71.
Nino ci ha esaltati con la magia di un gancio, la poesia di un montante. Famiglie intere hanno imparato ad amare uno sport a volte brutale, ma sempre dispensatore di passioni. Di questo, noi che il pugilato lo abbiamo nel cuore, dovremo essergliene grati per sempre.