«Il problema è che siamo troppo arbitri». Già, fedeli nel secolo, festeggiato nel 2011, nel bene e - soprattutto, visti i casi scoppiati negli ultimi tempi - nel male. Claudio Gavillucci, l’arbitro di Latina che ha perso la battaglia contro l’AIA, ha deciso di saltare il fosso. E di confessarsi, ben sapendo che la cosa potrebbe avere delle conseguenze. Perché al mondo dei social, della comunicazione 3.0, della condivisione e dei confronti via etere, l’Associazione Italiana Arbitri non vuole accedere. E chi parla finisce deferito. «Eppure ho fatto più di dieci richieste per rilasciare interviste, tutte respinte con il timbro: “Non sei autorizzato per motivi di opportunità”. Combatto anche per questo». Scriverà un libro su questa che è diventata una campagna di normalizzazione del sistema («Ci ho messo la croce sopra, non tornerò più in campo»). Trasparenza, meritocrazia, giustizia. Per chi la deve garantire in campo, la giustizia, non dovrebbe essere un problema. «Ma la mia vicenda dice che non sempre è così. Ecco perché non arretro». La battaglia che sembrava finita dopo la decisione del Coni, continuerà. «Perché tutti adesso parlano, a sproposito, di sussidi agli arbitri, chiamandoli Reddito di cittadinanza che è offensivo per la gente comune, di TFR, ma non siamo lavoratori dipendenti. La verità è che siamo l’unica componente di una partita, che non ha un contratto nazionale. E che la proporzione fra un arbitro al top che ha grandissime responsabilità e un calciatore medio, a livello di salario, è imbarazzante».
Gavillucci arbitro, la colpa è?
«Di zio Natale, allenatore di professione: mi vedeva mediocre come giocatore, ma con un gran carattere. Prese la palla al balzo, il corso arbitri allo stadio di Latina, ottobre 1994: in un solo colpo, fece nascere in me una passione e mi allontanò dal calcio giocato. Ricordo la prima partita, Cori-Norma, Esordienti. Avevo dovuto aspettare i 15 anni compiuti, quindi il settembre del 1995. Arrivai e non c’era nessuno, nessun tutor: protestai con il mio presidente, Giancarlo Bernasetti, mi venne a vedere alla seconda e mi disse “Avrai un futuro”».
Dall’inizio alla fine, consiglierebbe a sua figlia Giorgia Elizabeth («io e mia moglie Paola ci siano conosciuti in Inghilterra») di fare l’arbitro?
«E’ vero, forma il carattere, la mente, ti aiuta a superare le difficoltà in campo che poi saranno quelle della vita. Ma ti espone, oggi più di ieri, ad offese e, se va male, alle botte. Per cosa? Per rimborsi, e lo so bene io, ridicoli che arrivano 3/4/5 mesi dopo. Dopo rinunce personali - quando ero all’Università di Urbino, i miei compagni andavano in disco a Riccione e io a letto perché la domenica dovevo arbitrale - familiari - le famiglie “normali” sabato e domenica fanno la gita fuoriporta, un arbitro prende la borsa e va ad arbitrare - e lavorative - fino alla serie C prendevo 150 euro, avevo necessità di lavorare e lo facevo per una società multinazionale, ma quando fui promosso in B dovetti lasciare uno stipendio buono e sicuro per un sogno in quanto il lavoro era incompatibile con l’attività arbitrale. La realtà? Sei in bilico ogni anno, in maniera inconsapevole ti giudicano e aspetti ogni 30 giugno sperando che il tuo nome non compaia fra i dismessi, una vera e propria tortura».
Già, il 30 giugno: quello del 2018 lei era negli Usa...
«Sì, viaggio di nozze, finalmente. Alle 10.30 orario americano un messaggio da Rizzoli. “Ciao Claudio, purtroppo.... ho fatto l’ultimo tentativo che non ha dato esisti positivi”. Avrei dovuto prendere l’aereo da lì a poco, potete immaginare come sia stato il viaggio di ritorno. Appena ho messo piede in Italia, ho chiamato il designatore. «Purtroppo da dirigente non è come in campo, non decidi solo tu». Non me lo aspettavo...»
Neanche un sentore?
«Penultima di campionato, Samp-Napoli, quella sospesa per razzismo. C’era Rizzoli, mi fece capire che avrei diretto anche la domenica successiva, fra l’altro Udinese-Bologna, che aveva ancora un valore per la salvezza. Quale logica c’è nel mandare un arbitro “non tecnicamente all’altezza” ad arbitrare una partita con interessi così importanti in gioco? Inoltre, sarebbe stata la mia 50ª in A, un traguardo che quella sera festeggiai fino a tardi con lui e la mia sestina. Secondo lei, potevo avere sentore di essere dismesso?»
Due domande: dicono che quella sospensione per razzismo, le è costata il posto, è vero? E poi, visto che non ha deciso solo Rizzoli, chi ha deciso la sua bocciatura?
«La verità, o quella che penso sia la verità, è che non si può credere alle “motivate scelte tecniche”. Ci sono gli atti che parlano, le relazioni di tutti gli arbitri che ho avuto (solo dopo aver fatto causa) un’ora dopo ave perso al Coni, eppure li avevo chiesti a dicembre. Se quella sospensione abbia influito, non posso e non voglio crederci. Anche se è stupefacente come abbiano cambiato un protocollo Uefa/Fifa dopo l’ultimo Inter-Napoli... Ormai la mano sul fuoco non la metto più su nulla o nessuno. Comunque sia feci la cosa giusta questi cori erano vergognosi e dovevano cessare, lo rifarei altre cento volte».
Chi l’ha fatta fuori?
«Dopo Rizzoli, parlai con il presidente dell’AIA, Nicchi. Ringraziandolo, prima di tutto. Perché sicuramente ho avuto la fortuna di arrivare in serie A e di questo sicuramente devo ringraziare Stefano Farina, un maestro che ci ha lasciato troppo presto. Poi però a Nicchi ho chiesto una spiegazione, la risposta è stata tremenda: «L’arbitraggio va preso come un hobby, ora ne troverai altri». In quel momento ho deciso che avrei fatto di tutto per rispetto della mia professionalità, della mia famiglia e affinché non succedesse più a nessuno dei miei colleghi. Non lo si può accettare... Sacrifici, tanti, e poi ti mandano via con un SMS? E perché è un hobby?».
Una battaglia per la dignità.
«In campo ci sono giocatori, allenatori, fisioterapisti, dirigenti. Tutti hanno un contratto di lavoro Nazionale, con tutte le garanzie previste da i contratti Nazionali, tranne gli arbitri. Che invece hanno una sorta di Co.Co.Co e una partita Iva e null’altro. Un arbitro non può essere un precario o pensare alla sua precarietà , quando sta dirigendo una partita di calcio in cui girano enormi interessi economici. Deve poter svolgere il suo lavoro serenamente e in autonomia sotto tutto i punti di vista. Questo è una garanzia non solo per lui ma per tutto il mondo del calcio».
Beh, avrà visto: si parla di reddito di cittadinanza, di TFR... Lei è fuori strada....
«Il reddito di cittadinanza è un provvedimento fatto per chi vive, purtroppo, in condizioni di disagio e semi povertà. Parlarne per gli arbitri è offensivo: per loro e per chi vive senza un reddito. Il TFR? E chi ha il contratto? Sarebbe meglio parlare di Trattamento di Fine Mandato. Che è sbagliato anche quello. Comunque, con questa mossa, l’AIA si è garantita da altri casi-Gavillucci: chi avrà voglia di fare causa, rinunciando a 3mila euro al mese per due anni dopo le dismissioni?».
La sua battaglia in pillole: ha perso al TFN, ha vinto alla Corte federale che ha ordinato il suo reintegro, il Coni le ha dato torto. La sua però è non solo una cosa personale, ma anche una giusta causa. Si aspettava più appoggio dal calcio?
«Ho ricevuto stima e affetto da tanti miei colleghi - che per ovvi motivi non nomino, li metterei nei guai - da giovani arbitri, da società anche di serie A, da politici, da tanti presidenti di sezione, addirittura dai tifosi di squadre di calcio e la cosa mi ha imbarazzato. Un arbitro che tifosi ha? Non mi sono mai sognato di avere un appoggio formale. Ma di certo non mi aspettavo che, dopo due giudizi passati alla finestra, la Figc si costituisse contro di me al Coni, spalleggiando l’Aia, per ribaltare una sentenza della sua stessa Corte, screditandola. Considero Gravina una grande persona, capace di guardare lontano, ma la sua presa di posizione potrebbe aver spostato alcuni equilibri».
Qualcosa di positivo è arrivato...
«Sì, gli arbitri da quest’anno conoscono giustamente durante la stagione la propria media e la posizione che hanno in classifica e c’è un “ruolo VAR” in vista, che i vertici dell’Aia non avevano mai appoggiato».
Ha deciso di parlare, perché?
«Perché il mondo degli arbitri è chiuso, autoreferenziale, senza confronti. E questo ci fa apparire come arroganti, presuntuosi, egoisti. Ci fa guardare sempre con sospetto. Non è così, gli arbitri sono puliti, limpidi. Però nessun regolamento di un’Associazione anacronistica può limitare la libertà di espressione di una persona».
Il Coni ha stabilito che ha perso.
«Ma il dispositivo è inusuale, diverso da quelli che aveva emesso fino a quel momento. E onestamente la definizione «paiono sussistere» lascia perplessi, appare un pochino frettolosa. La Cassazione non può lasciare incertezze».
Ora cosa farà? Continuerà a fare l’arbitro nelle categorie provinciali?
«Continuerò la mia battaglia. Perché il Coni non ha specificato se la sentenza è nel merito o se ha rinviato tutto ad un nuovo grado di giudizio. Fra l’altro, con una tempistica sospetta (e non è stata l’unica volta), mi sono stati forniti atti e referti della scorsa stagione. E ci sono diverse cose che non tornano, gli avvocati (Gianluca Ciotti e Leonardo Guidi, ndr) mi dicono che ci sono gli estremi per riproporre la causa al TFN per “nuovi motivi aggiunti”. C’è chi ha preso quattro lettere di richiamo l’anno scorso, in un caso a fronte di un voto alto, o chi ha avuto valutazioni buone in partite di cartello a cui sono seguite evidenti sospensioni tecniche. Non voglio paragonarmi a nessuno. Ma se l’AIA riduce tutto ad una classifica di merito, perché per questo sono stato “condannato”, allora tutti dobbiamo correre con le stesse regole, predefinite e trasparenti».
Corriere dello Sport
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