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In albergo dopo due anni

Juventus FC via Getty Images

Maurizio Sarri non ha mai dimenticato la notte di fine aprile, era il 2018, in cui lasciò lo scudetto in un albergo di Firenze: i suoi videro la Juve battere l’Inter tra le polemiche e si sciolsero nell’amarezza e nella rabbia. Il giorno dopo persero di brutto e addio che t’amavo.

Questa volta il pernottamento in hotel potrebbe aver prodotto l’effetto opposto, visto che all’Inter non è riuscita l’impresa di battere la Roma e portarsi a meno tre: ha preso un solo punto e deve ringraziare Spinazzola, autore dello svarione che nel finale ha regalato il rigore a Lukaku.

Sono cinque (più uno) i punti che adesso separano l’Inter dalla Juve, impegnata stasera con la Lazio. E dal 2010 a oggi con 72 punti dopo 34 giornate lo scudetto si è vinto una volta sola. Lo dicono l’aritmetica e la storia del campionato: nell’anno del triplete l’Inter di Mourinho ne aveva addirittura due in meno ed era seconda, prima a 71 la Roma; la stagione seguente in testa con 74 c’era il Milan di Allegri, dodici mesi più tardi la prima Juve di Conte, sempre a 74. Dopo il primo titolo di Antonio la Juve ha accelerato sensibilmente azzerando la concorrenza e viaggiando da un minimo di 79 (2014-15) a un massimo di 90 (2013-14).

Sarri è dunque padrone del proprio destino: battendo la Lazio diventerebbe praticamente irraggiungibile e svuoterebbe - forse - di contenuto i discorsi sulla qualità del gioco della sua Juve e sul fallimento dell’idea di partenza.

Seguendo Roma-Inter (meglio la Roma, decisamente) ho ripensato all’articolo di Dotto su Marcelo Bielsa, il portatore unico di utopia, una sorta di profeta per “balordi”. Durante l’intervallo, sull’1-1, l’ho riletto ancora una volta soffermandomi sulla chiosa per cercare di capire dove risiedano realmente, oggi, la bellezza del calcio e il senso della vittoria. «Quante volte» scrive Giancarlo «noi che non siamo mai stati tifosi dell’Atalanta, abbiamo rinunciato a un impegno per non perderci la folle gioia della squadra di Gasperini. Quante volte ci siamo fermati a vedere e godere dell’improbabile Sassuolo di De Zerbi o dell’ancora più improbabile Verona di Juric? Quante volte al bar o nelle chiacchiere social abbiamo citato questi nomi piuttosto di altri? Diamo un punteggio a tutto questo, tiriamo le somme e avremo il podio. Ridefiniremo così i valori. E le statue. Avremo soprattutto il nuovo paradigma di cosa voglia dire davvero vincere. Riscritto da tutti noi balordi».

I valori non sono ridefinibili: comandano i fatturati dei punti e nel bilancio. L’estetica assoluta non porta titoli. La bellezza del gioco non vince più, la condanna della vittoria impone cambiamenti, ripensamenti, tradimenti. La bellezza sono i grandi giocatori, i campioni, i grandi interpreti. Vorrei riuscire a pensarla come Dotto, ma non ci riesco. La bellezza è perdente, affascinante ma perdente.

Di bello in Roma-Inter, ho visto l’arbitro al quale ho rubato una maiuscola. Arbitro che nel finale del primo tempo è andato al Var per prendere una decisione che ha diviso i giornalisti dai moviolisti: per i primi era fallo di Kolarov su Lautaro, per gli specialisti del calcio rivisto al video, no.

Tutti temiamo l’angoscia del troppo tardi, capisco perciò i rimpianti di Fonseca che nelle ultime quattro partite ci ha mostrato una squadra più maschia e convinta, capace di fare punti e aumentare i rimpianti.

Registro lo sfogo di Conte sul calendario e sugli orari delle partite dell’Inter: c’è un tempo per tutto. Ma non è mai quello dopo.

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