Per entrare nella settimana santa dell’11 luglio - di solito, la più affollata - recupero dall’archivio un testimone che, secondo l’immaginario popolare, è sempre stato più tentatore che confessore, più cane sciolto che barboncino. Eugenio Fascetti. Ha 83 anni, vive a Viareggio, in gioventù fu (anche e modestamente) riserva di Omar Sivori alla Juventus. Da “mister” ha lasciato tracce non banali. I tifosi della Lazio lo venerano fin dall’epoca in cui, negli spareggi di serie B, scongiurò la retrocessione in C dopo aver cancellato un handicap di ben nove punti. Era la stagione 1986-’87: e la vittoria ne valeva due. A Varese gettò le basi del “casino organizzato”, tenne a battesimo i bollori aziendali di Beppe Marotta, sfruttò la scienza del professor Enrico Arcelli per adattare la preparazione al calcio del futuro.
Ma 40 anni fa, durante quel mese là, magico e irripetibile, quando ancora si navigava a (s)vista ed era tutto un turpiloquio, all’indomani dello scialbo 1-1 con il Perù, lesse su un giornale, «non ricordo quale», che «se Enzo Bearzot era il miglior allenatore, figuriamoci gli altri». Sbroccò: «Mi vergogno di appartenere alla sua categoria». Puro tritolo. Lì per lì, nessuno ci fece caso. Anzi. C’era chi aveva scritto e detto di peggio, molto di peggio, sul Vecio, le sue origini e i suoi confini, «sfortunatamente» furlani e non sloveni.
Il vento cambiò e gonfiò le vele azzurre. Caddero, in rapida sequenza, Argentina, Brasile, Polonia e Germania Ovest. «Campioni del mondo, campioni del mondo, campioni del mondo», proclamò Nando Martellini. Abbandonato e vilipeso, il carro della Nazionale si trasformò nella metropolitana di Milano all’ora di punta. Tutti spingevano, tutti pagavano in superlativi, tutti - tranne la sparuta tribù di filo-bearzottiani che già da Vigo aveva scelto la causa più scomoda - si prostravano ai piedi del “venditore” additato, fino ai tumulti del Sarrià, al pubblico ludibrio.
Non subito, ma vigliaccamente dopo (il 23 luglio), Fascetti venne deferito dalla Procura federale e squalificato per venti giorni, addirittura. A differenza di Antonio Matarrese che, presidente di Lega, non era stato certo più carino. Domanda: il tecnico del Bari avrebbe sbagliato tanto? Risposta: «Non offendiamo Catuzzi». Come se non bastasse, ubriaca di Bernabeu, la Federazione offrì laute amnistie ai peccatori del «Toto-nero».
Insomma: pagò solo lui. Fascetti. Fedele alla massima di Albert Einstein («Non hai mai commesso un errore se non ha mai tentato qualcosa di nuovo»), nel tempo si è chiarito con Bearzot e ha continuato a privilegiare le squadre camaleontiche che si chiudono a pugno e, in fase d’attacco, diventano coltelli; a credere in un’idea, per paradosso, non poi così lontana, sul piano tattico, dai concetti che il ct aveva assorbito girando e diffuso insegnando. Inoltre, per rinfrescare la memoria, Antonio Cassano, a Bari, lo scoprì e lanciò proprio Eugenio. Troppo brusco e smentito dai risultati: che sono fatti, sempre. In carriera, però, non ha mai inseguito o invocato la “melassa”. Lo sciroppo più odiato da Enzo.