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I ritmi latini e la corsa della Premier

Adesso che ogni squadra regina ci sembra un po’ meno «regina», lo sport dell’alta velocità continua a dividere. La sentenza Bosman del 15 dicembre 1995 ha sancito la fine di un sistema e l’inizio di un mondo. Prima, bastava sfogliare i sacri testi per distinguere la scuola latina, onorata in passato addirittura da una coppa, da quella britannica o comunque alternativa all’idea di un calcio felpato, «bailado», che privilegiava il verbo al nerbo, la scintilla alla fiamma.

Il modello che più invidiamo è la Premier, così equamente ricca da dettare ritmi e tendenze. Pagheremmo per poter correre ai suoi livelli: con la stessa precisione, con le identiche sgommate che gli arbitri, invece di multare, scortano rapiti. E se d’improvviso il Liverpool crolla a Napoli, nessun problema. Si addormentava persino Omero e, dunque, può tranquillamente svegliarsi chi lo ha letto o studiato.

Le analisi crepitano. La più casta: all’estero sono «liberi» di testa, da noi la tattica lega, rende sudditi. La più viscida: altrove, gli esami anti-doping sono meno capillari, meno profondi. Resta il confine: che, spesso, è un abisso. Eppure sei delle ultime nove Champions le hanno vinte i «latini» di Spagna, una il Barcellona e cinque il Real, compresa l’edizione di Parigi, il 28 maggio scorso. Di portiere e contropiede, per giunta. E anche lì c’erano di mezzo i rossi di Anfield.

Non esistono leggi universali che sappiano garantire, sul piano agonistico e filosofico, i bottini più prestigiosi. Al massimo, possono orientarli. Certo, se uno sbaglia a prepararsi si prepara a sbagliare. Da Alfredo Di Stefano, l’orchestra che, negli anni Cinquanta, battezzò l’epopea, a Karim Benzema, l’orchestrale che, un secolo più tardi, ha forzato il tempo riportandolo al Big Bang madridista, è possibile raccontare la bellezza di una disciplina che non sta mai ferma e, per questo, ci costringe ad aggiornare in fretta credenze, prudenze e impudenze.

Di Stefano era tutto. Johan Cruijff è stato tutti. Oggi, della loro onnipotenza colgo piccole, suggestive tracce nel nomadismo fisico e tecnico di Kevin De Bruyne, l’oplita belga che Pep Guardiola, al Manchester City, ha tolto dal garage del ruolo fisso per scaraventare nel traffico in cui sai o non sei.

Il mercato comune ha mescolato gli stili e ridotto le differenze, senza però rivoluzionare le bacheche. Il 29 maggio 2021 Thomas Tuchel pilotava il Chelsea alla conquista della Champions. Una settimana fa è stato esonerato. Il cambio di proprietà, da Roman Abramovich a Todd Boehly, ci spinge lontano dall’epica. I risultati, che dovrebbero costituire «solo» la punta dell’iceberg, non smettono di essere «l’unica cosa che conta», al netto dello slogan che il Bonipertismo innalzò a manifesto viscerale e aziendale. Dopodiché, spazio alle dispute concettuali che tanto ci gonfiano. Perché le partite degli inglesi (e degli spagnoli) travolgono e le nostre, salvo rare eccezioni, annoiano? Forse perché, come ammoniva Alexis de Tocqueville, «la storia è una galleria di quadri dove ci sono pochi originali e molte copie».

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