Donne che giudicano gli uomini. Donne che corrono con (e come) gli uomini. Donne che abbattono muri, che cambiano la prospettiva. Il calcio è un paese per maschi e Maria Sole Ferrieri Caputi ha dato uno scossone fischiando l’inizio di una nuova possibilità: era il 2022 e la livornese, oggi 34 anni, debuttava in Serie A arbitrando Sassuolo-Salernitana. Era la prima donna. È ancora l’unica donna. Pronta ad alzare l’asticella e puntare ai Mondiali maschili, quelli femminili li ha fatti. Maria Sole, come il mare della sua Livorno che da calmo a mosso può metterci un attimo («Sono una tranquilla ma a volte mi arrabbio»), ha il sale nelle vene. «Ho bisogno del mare, per me è tutto: corsa sul lungomare, caffè al mare, passeggiata al mare». Quieta e impetuosa, anche nella voce che si impenna o cala quando precisa, quando sorride, quando desiste, quando si nasconde, quando incalza.
Partiamo da una vocale?
«Arbitro o arbitra non fa differenza. Penso che le cose si cambino facendo e non con le parole. Però da quando sono stata promossa in Serie A è diverso, ora mi sta bene essere chiamata arbitra. All’inizio era arbitro se facevo male arbitra, come insulto, per dire “cogliona”».
Voleva fare la calciatrice però.
«Da bambina seguivo il calcio in tv, leggevo tutti i quotidiani sportivi, tifavo per la Nazionale. Un giorno ho visto il Livorno allo stadio... Mi sono innamorata. Avrei voluto fare la calciatrice, ma mia mamma disse no e io non ho insistito. Giocavo a scuola con gli amici».
Niente bambole?
«No. A parte le Barbie a cui però staccavo le teste e le calciavo. Ho avuto più amici maschi che femmine. Stavo molto all’aria aperta, si giocava a pallone o a nascondino. Da ragazzina ero molto per conto mio, mi piaceva inventare storie».
E poi com’è andata?
«Verso i 14-15 anni a scuola trovai un volantino sul motorino che pubblicizzava un corso per arbitri. Davano lezioni, ingressi gratuiti allo stadio, rimborso spese, e poi era uno sport, ci si allenava. Ho coinvolto gli amici e ci siamo iscritti».
Insomma, arbitra per caso?
«Volevo fare qualcosa di nuovo, se non avessi avuto questa possibilità avrei fatto altro».
Ha mai pensato di mollare?
«Diverse volte. Per esempio, al terzo anno in Serie D, vivevo a Bergamo, ero in un limbo: o diventavo internazionale o smettevo. Ho stretto i denti e ho superato quel momento».
Ha subito insulti in quanto donna?
«Dal pubblico arriva di tutto. Se sbagliavo c’era chi sottolineava che ero donna. All’inizio è difficile, poi si impara a tararli. Quando è chiaro qual è il tuo ruolo, contestualizzi tutto e non ti pesano più».
Cosa le ha fatto male nel suo cammino?
«Troppa attenzione mediatica. Non fanno bene né i commenti troppo positivi né quelli troppo negativi. Serve normalizzazione, non essere vivisezionati. C’è ancora diffidenza, ce ne vuole per essere riconosciute e accettate. Alle ragazze però prima si diceva “non puoi” farlo, ora si dice “puoi”».
La parità in questo campo ci sarà mai?
«Spero che un giorno succeda. Si sono fatti passi da gigante negli ultimi dieci anni. Ma bisogna crescere ancora».
Che differenza c’è ad arbitrare uomini o donne?
«Le donne si lamentano meno. Pensano a giocare. Protestano se sanno di avere davvero ragione e non per provarci. Accettano di più l’errore. Le partite sono più corrette. E non si buttano per terra... Qualcuna sì, dai. Le difficoltà sono diverse, nel femminile non c’è il Var e nei contrasti o nella valutazione dei falli di mano o nelle dinamiche da rigore non è sempre facile vedere».
Notte prima dell’esordio in Serie A, ha dormito?
«Io dormo sempre. Ero emozionata, sentivo la tensione e le aspettative, volevo essere all’altezza del compito. Non all’altezza dell’uomo. Succede la prima volta. Però non deve essere un limite».
Cucina e si occupa della casa?
«So cucinare 4-5 cose che preparo a rotazione, cose semplici. Amo la pasta al pomodoro, è il piatto prima delle partite e sono contenta. In quanto ai lavori domestici ho un livello base e lì mi sono fermata (ride, ndr)».
Cosa fa nel tempo libero?
«Esco con gli amici, ascolto musica e leggo. Ho amato tanto “Il signore delle mosche” e “Il rumore delle cose che cadono”».
Chi è il suo idolo?
«Il mio punto di riferimento è Carina Vitulano: ho imparato a sognare grazie a lei. Non è facile raggiungere il proprio modello. Superarlo poi... Lei non arbitra più».
Che rapporto ha col suo corpo?
«Il corpo è uno strumento di comunicazione. Ognuna è libera di esprimere la propria femminilità a modo suo. Io come sono in campo sono fuori. Vivrei in tuta, ma allo stadio arrivo con la divisa e su consiglio di un collega ho messo i tacchi. Piccoli compromessi... Dopo la partita, salgo in macchina e mi cambio le scarpe».
Esce coi colleghi dopo una gara?
«Qualche volta. Mi trovo bene. Ogni cena con loro è formativa, mi piace continuare a parlare di calcio».
Ha amici tra i calciatori?
«Non ne ho. Però potrebbe succedere. Non un’amicizia da una birra insieme però».
Avere figli è nei suoi progetti?
«Da quattro anni vivo col mio compagno e voglio un figlio con lui. Mi vedo mamma, ma non ora: fermarmi e ripartire adesso no».
Si definirebbe simpatica?
«Non sono simpatica! (ride, ndr). Mi dicono che ho sempre il broncio. Sono riservata, silenziosa e questo si confonde con presupponenza ma non è così. Ho bisogno dei momenti miei».
Un’intervista è faticosa come 90 minuti di partita?
«Non amo le interviste solo perché vorrei poter essere sincera e parlare col cuore e non è possibile. Mi trattengo e questo mi pesa. Vorrei farne una quando finirò di arbitrare».