L’alternativa all’arbitro venduto c’è: nessun arbitro. Ma sì, un ritorno al primitivo, come usava una volta sui piazzali polverosi delle periferie, due sacche come pali e mezz’ora a litigare perché qualcuno diceva che il tiro non era gol, ma traversa. Nessun arbitro è la nostra ambizione inespressa, ma da come siamo messi basta il solo pensiero per lasciare subito due righe di testamento. Eppure rischiamo seriamente di arrivarci, perché a lungo andare sempre meno ragazzi accetteranno di mettersi in mezzo, con la simpatica prospettiva di finire la partita in terapia intensiva. Bisogna partire da qui, dal livello che abbiamo raggiunto, prima di giudicare esagerata l’idea di concedere all’arbitro di un gioco la dignità del pubblico ufficiale. La nuova sociologia d’Italia segnala una chiara perversione della magnifica idea di libertà, trasformata nel giro di pochi decenni nella libertà di liberare l’io-animale, in qualunque sede e in qualunque situazione.
È pericoloso fare il preside e il professore perché le famiglie ti spaccano i denti. È pericoloso fare il medico e l’infermiere perché le famiglie ti rompono le sedie in testa. È pericoloso fare il controllore sui treni perché i viaggiatori ti buttano giù dal vagone. Sono caduti freni inibitori e sensi del limite, l’autorità è un bersaglio troppo invitante, ciascuno si sente in diritto di, nella totale assenza di doveri. Abbiamo idolatrato i trapper che cantano di lame facili e di polveri allucinogene, trattiamo con cottonfioc e borotalco sul sederino le baby-gang che devastano i centri cittadini.
In questo brutale saloon nazionale, pretenderemmo magari che negli stadi si presentassero solo boy-scout e gesuiti. Siamo sconnessi. In realtà portiamo semplicemente negli stadi i noi stessi di ultimissima generazione, trogloditi subito pronti a regolare i conti a mani nude. Siamo al punto che l’arbitro Guida, dopo aver chiesto con Maresca di non fischiare più nella sua Napoli, così spiega l’obiezione di coscienza: «La mattina devo andare a prendere i miei figli e voglio stare tranquillo. Quando ho commesso degli errori non era così sicuro passeggiare per strada, così come andare a fare la spesa. Pensare di sbagliare ad assegnare un rigore e di non poter uscire due giorni di casa non mi fa sentire sereno...». No, chiedere lo stato di pubblico ufficiale – con quello che ne deriva - non è una battuta e tantomeno una forzatura. Sta diventando il minimo sindacale. Chi la trovasse un’aberrazione, chi fosse tentato di commentare alla benpensante ma tu guarda come s’è ridotto il calcio, questo chi si dia un’occhiata in giro: il terrore degli arbitri non è il segno di com’è ridotto il calcio, ma di come abbiamo ridotto la Repubblica.