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Dal calcio ai diritti per le donne: la rivoluzione a piccoli passi dell'Arabia Saudita

Censura, torture e discriminazione di genere: la strada da percorrere è ancora lunga

RIYAD (dall’inviato) - Riyad, agosto 2023. Una donna, coperta dalla testa ai piedi con il niqab, scende dalla macchina con sua figlia di dieci anni (vestita con jeans e t-shirt) e insieme entrano in uno store di una squadra di calcio, l’Al-Hilal. La piccola dice a sua madre: «Da grande vorrei essere forte come Ronaldo». «Ma lui gioca con l’Al-Nassr» risponde la signora, evidentemente tifosa della sponda azzurra della capitale. Tutto questo dialogare di pallone tra mamma e figlia sembra così normale che un uomo, a pochi metri di distanza, anziché rimproverarle le osserva e sorride. Appena cinque anni fa un episodio del genere sarebbe stato “haram”, cioè proibito. E invece il Paese più conservatore del mondo avanza, a suo modo. E i progressi sono evidenti soprattutto a chi ha avuto modo di toccare con mano il vento del cambiamento.

Una nuova visione

A Riyad le ambasciate sono dislocate in un’unica via, nel quartiere più lussuoso della città. Quella italiana “confina” con Iran, Brasile e Francia, e a pochi km c’è il Billionaire Riyadh di Briatore. I nostri connazionali (qui vivono in 1000) raccontano con piacere il nuovo volto della capitale di uno Stato considerato generalmente pericoloso, estremista e isolato. I funzionari dell’ambasciata, ad esempio, parlano di «rivoluzione» e di «grandi riforme in atto» legate, come abbiamo raccontato nei giorni scorsi, a una considerazione di natura strettamente economica e di opportunità: l'Arabia Saudita vuole interrompere la propria dipendenza dal petrolio e sta attuando questo piano di diversificazione degli investimenti tramite "Vision 2030", l'idea di Mohammed Bin Salman, diventato erede al trono e primo ministro nel 2017. Il +8% su base annua che oggi rende questo il Paese del G20 con l’economia a crescita maggiore, e l’apertura internazionale di cui sta godendo anche il calcio locale, testimoniano la volontà della famiglia reale di uscire dal guscio. Senza accelerare troppo i cambiamenti, ma assecondandoli e allentando le maglie della repressione; la Primavera araba qui è stata solo di passaggio a differenza di Egitto, Tunisia e Libia, ma qualcosa ha insegnato.

Diritti, la strada è ancora lunga

La rigida dottrina wahabita ha dovuto così accettare il compromesso dei diritti. Dal 2018 le donne possono guidare - sono davvero poche, va detto - e frequentare luoghi pubblici senza più spazi di segregazione; possono avere impieghi (partecipano al 35% nel mondo del lavoro), uscire di casa senza aver più bisogno della firma del loro “guardiano" e la polizia religiosa, una vera e propria inquisizione, è sparita dalle strade. Vengono inoltre costruiti cinema, musei e fast food (erano proibiti fino a poco tempo fa) e anche i sistemi giudiziario e dell’istruzione stanno lentamente abbandonando le interpretazioni intransigenti della legge islamica. Sette abitanti su dieci hanno meno di 35 anni e rappresentano lo zoccolo duro del consenso del principe. Tutto risolto, quindi? Nient'affatto: l’Arabia Saudita resta una monarchia assoluta e senza parlamento, la soggiogazione degli uomini nei confronti delle donne è ancora profondamente radicata (quasi tutte le femmine indossano il velo integrale, ma sono i mariti a imporlo) e in caso di separazione lei perde i figli; il governo controlla la stampa, la questione dell'aggressione in Yemen viene messa a tacere, le scene “poco etiche” dei film (sesso, droga, violenza e consumo di alcool) vengono censurate, l’attivismo è punito con pene lunghissime, le torture sono all’ordine del giorno e, in caso di stupri, omicidi o traffico di droga è prevista la pena di morte. Il regno compie piccoli passi, ma ha scelto con quale ritmo farsi strada per non sconvolgere i propri equilibri sociali. Con l’Italia c’è un rapporto legato a infrastrutture, cultura, architettura, design, moda e intrattenimento: il "made in Italy" fa breccia anche a Riyad e il nostro Paese è considerato un partner privilegiato pure nel progetto “red sea global” che punta a sviluppare il nord della costa saudita con la costruzione di resort di lusso per interrompere l'egemonia dell'egiziana Sharm El Sheik, affacciata sulla sponda opposta del golfo di Aqaba.

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