Corriere dello Sport

Rendi la tua esperienza speciale

Home

Calcio

Formula 1

Moto

Motori

Basket

Tennis

Altri Sport

Stadio

Foto

Video

Corriere dello Sport

LIVE

Mourinho, basta la parola

Di sicuro, quello che si presenta stasera a Torino è un Mourinho minore. Scalfito da troppi passaggi a vuoto Manchester doveva essere la sua rivincita, rischia di diventare, se non la sua fossa, la sua più grande debacle. Una panchina già da un pezzo pericolante, risultati deludenti e gestione di un gruppo che, fedelissimi a parte, fatica a farsi permeare dal suo fluido

«Per lui ucciderei, se me lo chiedesse…». Lo ha scritto Ibra il duro nella sua bio, ma avrebbero potuto scriverlo, con parole magari meno truculente, tanti altri, Ricardo Carvalho, Hernan Crespo, Samuel Eto’o, Marco Materazzi, Frank Lampard o Juan Mata. Più moderato, Didier Drogba si limiterebbe a gettarsi nel fuoco. Sintesi esemplare di come un uomo (in questo caso un allenatore di calcio, ma poteva essere qualunque altra cosa, un illusionista, un incantatore di serpenti, il leader di una setta, l’amministratore di un condominio) sia capace di entrare nella testa di un altro uomo. Il reato di plagio mentale è stato depenalizzato quasi ovunque e dunque José Mourinho può portare liberamente a spasso per il mondo il suo sguardo tenebra alias Cagliostro, puntandolo ogni volta sulla vittima di turno da incenerire. Occhi come raggi fotonici. La fissità penetrante che comunica all’umanità intera il concetto: «Ascoltatemi plebe, è la vostra grande occasione». Chiamatelo come volete, “carisma” o “genio manipolatore”, se preferite. Il tema non è questo. Piuttosto, capire quanto sia appannato oggi il carisma o il genio. Quanta gente, in giro per il mondo, sia ancora disposta a uccidere per il mago di Setubal. Dico “mago” non a caso. José è certamente la reincarnazione di Helenio Herrera. Due “parolai”, nel senso anche sublime del termine, sulla scia del canone biblico secondo cui “in principio era il Verbo”. Per i due celebri maliardi (e anche un po’ magliari) la parola non si contrappone all’azione, la parola è azione. Herrera convinceva Bicicli d’essere l’erede di Garrincha, Mourinho spiegava a Eto’o la bellezza lirica di sgobbare da terzino. Più ruvido e picaresco lo zufolo dell’argentino, più paranoide e contundente quello del portoghese, il risultato non cambia: i topi accorrono in massa.

Quando basta la parola. Gli ci vollero due mesi scarsi per conquistare i nostri tutti con il suo già forbito italiano. Innamorati persi gli interisti. Da quando si presentò pubblicamente: «Io non sono pirla». La frase scenica che decreta il suo trionfo. Osando anche sfidare e stracciare l’Everest dei teoremi, secondo cui la negazione afferma. Titoli, svenimenti, stupori, ogni volta che apre bocca. Ancora prima che apra bocca. Come nella strepitosa parodia di Petrolini, il popolo urla “bravo!” al primo accenno di emissione. Il furbacchione capisce rapido che gli italiani sono brava gente e fa strage di cuori. Quando tira fuori dal cilindro la parola “empatia”, vengono giù le tribune e impazziscono i loggioni. Luciano Spalletti, altro aspirante incantatore di bocca, è un suo fervente ammiratore. L’uomo viene dalla terra, ha mani da contadino, colleziona martelli, ma ha da sempre una devozione per la parola e per chi sa usarla in pubblico. Quando arriva all’Inter, dopo il tribolato passaggio a Roma e gli anni di San Pietroburgo dove sviluppa un’interessante somiglianza con Rasputin, altro stregone di parola, Spalletti decide di studiare a fondo il modo di comunicare di Mourinho. Come in tutte le sue cose, lo fa con applicazione feroce. Giustamente convinto che su quello José avesse fondato sua presa della Bastiglia nerazzurra.

Di sicuro, quello che si presenta stasera a Torino è un Mourinho minore. Scalfito da troppi passaggi a vuoto. Manchester doveva essere la sua rivincita, rischia di diventare, se non la sua fossa, la sua più grande debacle. Una panchina già da un pezzo pericolante, risultati deludenti e gestione di un gruppo che, fedelissimi a parte, fatica a farsi permeare dal suo fluido. Pogba, il più refrattario. Tre anni fa, la cacciata dal Chelsea era stato il primo, inaudito, affronto alla sua persona. Fatto fuori, prima ancora che da Abramovich, dall’omarino di Testaccio che lui aveva pubblicamente sprezzato come un vecchio babbione fallito e un analfabeta linguistico, e dal suo Leicester da manicomio. Dovesse essere sfrattato anche da Manchester (ipotesi per niente remota, così mediocre in Premier e a rischio Champions), da Special One diventerebbe facile Special Gone. L’allenatore più sbolognato del pianeta. Quanto lontano dal molto fotogenico seduttore che come nessuno apriva ombrelli, guidava Ferrari, portava al polso i Richard Mille da 213 mila euro e si travestiva da mister Sambuca Molinari. La fosca ritrosia addosso del messia che si concede nonostante il naso invaso dalla puzza. E scansa per diritto divino l’accoltellatore di turno, all’aeroporto di La Coruna, il solito mitomane frustrato che non si dà pace fino a che non svela la mondo la fragilità carnale dei miti.

Corriere dello Sport in abbonamento

Insieme per passione, scegli come

Abbonati all'edizione digitale del giornale. Partite, storie, approfondimenti, interviste, commenti, rubriche, classifiche, tabellini, formazioni, anteprime.

Sempre con te, come vuoi