In fin dei conti è a un tedesco che dobbiamo la partita del secolo. Karl-Heinz Schnellinger. Il suo pareggio, al crepuscolo del 90’, portò Italia-Germania Ovest ai supplementari e la trasformò nell’epica di un 4-3 su cui avremmo scritto libri, girato film e fatto girare le scatole alla lobby degli invidiosi. Era il 17 giugno 1970. Bayern-Inter di questa sera introduce i quarti di Champions e agita lo strascico di una sfida infinita. Ne sa qualcosa la Nazionale di Luciano Spalletti, fresca di bocciatura in Nations League: 1-2 a San Siro, 3-3 a Dortmund.
Si gioca a Monaco, sede di un’Olimpiade che, nel 1972, passò alla storia per la strage di Settembre nero e una finale di basket, Unione Sovietica-Stati Uniti 51-50, che ci avrebbe lasciato in eredità i tre secondi più lunghi, e burrascosi, dello sport. Sempre lì, nel cuore della Baviera, da una sconfitta deflagrò la scintilla del calcio totale, Germania Ovest-Olanda 2-1, epilogo del Mondiale 1974. La grazia di Franz Beckenbauer contro la bulimia di Johan Cruijff: le «famigerate» convergenze parallele.
Ci sono squadre che la tradizione ha legato a una scuola, a uno stile senza impedirne evasioni e contaminazioni. Penso alla Juventus argentina di Raimundo Orsi, ala violinista e dadaista, Renato Cesarini, il «bellissimo» di notte, e, in fondo al tunnel, Omar Sivori. Dall’archivio si sbracciano il Milan svedese del Gre-No-Li (Gunnar Gren, Gunnar Nordahl, Nils Liedholm) e l’edizione olandese di Ruud Gullit, Frank Rijkaard e Marco Van Basten.
L’Inter etichetta 1988-1989, l’Inter dello scudetto-record, guarnì la carrozzeria italiana con il motore tedesco di Lothar Matthaeus - «il» Lothar, nel gergo dei tifosi - e Andy Brehme, il mestiere dell’ombra: nel senso che seppe andare oltre, molto oltre, il concetto di scorta assegnatogli dai saputelli. In precedenza, c’era stato un altro Karl-Heinz: Rummenigge. E subito dopo sarebbe arrivato un bomberone dalla mira «ignorante» e biondo come la birra: Jürgen Klinsmann. In cambio, a Marienplatz piantò le tende niente meno che Giovanni Trapattoni, con il suo ruspante e apodittico «Strunz», metafora moderna del ciceroniano «Quousque tandem abutere, Catilina, patientia nostra?».
Bolle e ribolle l’ordalia del Bernabeu, doppietta di Diego Milito e «auf wiedersehen», la vetta del Triplete di José Mourinho, restituitoci dai saloon turchi nei panni di uno sguaiato «ficca-naso». L’Allianz Arena ha sostituito l’Olympiastadion, là dove Nicolino Berti siglò un chilometrico gol da area ad area. E’ però a Diego Armando Maradona che voglio dedicare la chiusura. Ai palleggi che introdussero il ritorno della semifinale di Coppa Uefa tra Bayern e Napoli. Era il 19 aprile 1989. Sì, proprio a lui: e proprio adesso che dal processo post mortem sta uscendo di tutto, e di più, e di peggio. Due minuti abbondanti, mentre l’altoparlante sparava «Live is life» degli Opus. YouTube ne conserva, geloso e commosso, la liturgia, i do di tacco e di petto, l’io del genio che domina l’ego del vizio e spinge via il destino. Cesare Pavese annotava: «Non si ricordano i giorni, si ricordano gli attimi».