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Immobile, una finale per scacciare i fantasmi

Due reti all’inizio dell'Europeo, poi qualche passaggio a vuoto. Ma oggi l'attaccante azzurro ha l’occasione per prendersi  la gloria  anche con l’Italia

Gl i resta la finale di Wembley per cancellare l’ombra azzurra che lo perseguita. È la notte del riscatto e della catarsi. Basta un pallone per cambiare la storia o celebrare una carriera. Altro che uragano Kane. Ciro d’Italia, giusto un anno fa, era davanti a tutti, compreso il centravanti dell’Inghilterra e del Tottenham: 36 gol in Serie A con la Lazio e Scarpa d’Oro davanti a Lewandowski (Bayern Monaco), Ronaldo (Juve), Werner (Lipsia), Haaland (Borussia Dortmund) e Messi (Barcellona), i più grandi d’Europa. Un giorno all’improvviso una nuvola si è trasformata in tempesta. La Nazionale non è ancora sua nonostante abbia giocato 51 partite e segnato 15 gol, solo uno in meno di Vialli e Toni. L’Europeo, iniziato alla grande, lo sta respingendo come l’incrocio dei pali colpito con l’Austria. Basta un attimo o soltanto un centimetro per transitare dalla beatificazione al banco degli accusati. Lo hanno difeso in tanti, anche Bobo Vieri. Sono seguite critiche, discussioni e il vortice emotivo, naturale quanto le umane insicurezze, in cui è caduto per qualche ora. La partita sbagliata con il Belgio (succede) e la sostituzione affrettata con la Spagna (può sbagliare persino Mancini), quando Immobile si era sbloccato e stava cominciando a mordere in contropiede.  

Immobile e la fiducia di Mancini

Pensi alla finale di Ciro, 150 gol con la Lazio a meno 9 dal record del leggendario Piola, e viene in mente l’immagine epica tirata fuori da Di Canio avvicinandosi a uno dei tanti derby con la Roma: «Dalla battaglia torni a casa con la testa del nemico o senza la propria». Tipo l’ultimo samurai. Immobile, invece, avrebbe bisogno di una carezza del suo ct, come Bearzot con Rossi. Il Vecio difese Pablito nel 1982 e continuò a farlo giocare quando tutta l’Italia stava chiedendo la sua testa. «Di solito chi viene criticato, risolve un torneo o una finale» ha raccontato Mancio, evocando la storia azzurra, fatta di risalite e discese ardite. Confidava nel suo risveglio. Peccato dimenticarsene qualche ora dopo con la Spagna. Davanti alla panchina, palesi dimostrazioni di insofferenza al primo stop sbagliato, che poi saranno stati due o tre in tutto, non di più e succede. Mica facile giocare così, sotto pressione e senza avvertire una fiducia incondizionata dell’allenatore.

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