Es onero. Non dimissioni. Ergo, una scelta. Un’assunzione di responsabilità. Inevitabile dopo il secondo naufragio nel giro di un anno. Sempre a un bivio decisivo: prima la Svizzera, poi la Norvegia. Il comportamento è stato identico: squadra fantasma, la partita non si è giocata. Su queste basi è arduo sostenere che la decisione di Gravina non sia stata quella giusta. Il presidente della Federcalcio ha imboccato la strada che oggi gli sembra più adatta per tutelare la Nazionale e le chance di giocare il prossimo Mondiale. Perché di questo stiamo parlando. Non del sistema calcio italiano. Almeno non ora. È il motivo per cui in questo momento appaiono poco comprensibili le critiche e le richieste di dimissioni per il numero uno della Figc.
Chiariamoci. Di Gravina e del suo governo si può e si deve discutere. Tante sono le lacune. Su tutte, un vistoso ritardo nella ricerca della maggiore competitività del football di casa nostra. Le mancate riforme, a partire da quelle dei campionati. Così come l’assenza di un piano (che oseremmo definire d’emergenza) per la gestione dei vivai, la cura dei talenti. È questa una delle gravi insufficienze che ci stanno facendo pericolosamente arretrare. Sarebbe bastato ascoltare il grido di dolore che un certo Massimiliano Allegri lanciò alla Panchina d’oro del 2018: «Nei settori giovanili si lavora per meccanizzare i giovani. Li trasformiamo in impiegati. Imprigionati in schemi e movimenti fissi. E la creatività? Ce la siamo dimenticata. Torniamo a insegnare ai bambini a giocare divertendosi. Ci sarà il tempo per tattica e tatticismi». Un presidente federale attento, sarebbe dovuto saltare a queste parole pronunciate dall’allenatore più vincente in Italia. E invece niente. Come se avesse parlato Peppino il barbiere.
Ma attaccare Gravina per la scelta di ingaggiare Spalletti, e oggi per il suo esonero, è evidentemente pretestuoso. Oltre che poco sensato. Peraltro, entrambe le decisioni sono state prese a furor di popolo. Due anni fa, fatichiamo a ricordare opinioni contrarie. Reduce dal successo di Napoli, Spalletti era considerato l’ambasciatore del calcio italiano, del nuovo calcio italiano che si stava liberando dai legacci della tradizione. Alzare il ditino oggi, è un non-sense. Le battaglie politiche dovrebbero avere una loro struttura, altrimenti diventa tutto arena social e caccia ai like. E così, francamente, è altamente improbabile che il calcio italiano possa aprire una seria riflessione sulla propria condizione.