Mai, come in questi tempi, il calcio è stato così distante dal mondo del calcio. E’ come se l’anima si fosse staccata dal corpo, come se il valore che il calcio porta in sé da sempre fosse stato calpestato dal mondo che lo circonda e lo sfrutta. Che fai, te ne accorgi solo ora? Sai da quanto va avanti così. E’ vero, va avanti così dagli anni Ottanta, quando gli italiani (ben prima degli arabi...) hanno invaso l’Europa e il Sudamerica portando via i migliori talenti a suon di miliardi di lire. Soldi che in qualche modo dovevano rientrare. E allora ecco le grandi tournée estive, negli States e in Asia, che facevano dannare gli allenatori incapaci però, già allora, di dire “no” a quella fatica poco sportiva ma ben remunerata. Negli ultimi tempi c’è stata una brutale accelerazione che, proprio in questi giorni, ha preso la forma del Mondiale per club. Per il calcio, un’assurdità, una follia, qualcosa di innaturale; per il mondo del calcio una nuova fonte di guadagno. E ancora: che fai, ti accorgi solo ora che tutto il pianeta va nella direzione del denaro? E’ vero, è così, ma il calcio è qualcosa che abbiamo dentro come la nostra vita, come la vita di milioni di appassionati. E allora il Mondiale per club può diventare lo strumento per una riflessione che per alcuni sembrerà un esercizio di nostalgia, ma che forse, con un po’ di ottimismo, potrebbe avere qualche riverbero per il futuro. Il Mondiale per club si è aperto a tutti continenti, ma poche partite, soprattutto in questa parte iniziale del torneo, danno il senso di un calcio vero.
Il baraccone (che rischia di diventare solo la prima edizione...) è stato messo in piedi per due soli motivi, il denaro e il potere. Dovrebbero intervenire i Ministeri della Salute per dire che non si può giocare negli States a giugno e luglio con temperature oltre 35 gradi, dopo le note stagioni massacranti. Ne va non solo dello spettacolo (e di quello, ormai non frega niente), ma anche della salute dei giocatori. Lo diceva, anzi lo gridava, Maradona nel ‘94 e Diego andò anche allo scontro con Blatter e Havelange, allora i capi della Fifa. Per il Mondiale in Qatar, organizzati in inverno per evidenti ragioni, la Fifa ha spaccato senza preoccuparsene troppo i campionati in Europa. Motivo? Soldi. E potere. Nel 2022 le nazionali che hanno partecipato al Mondiale erano 32, il prossimo anno negli States, in Canada e in Messico saranno 48, sedici squadre in più. Ma dove sono 48 nazionali in grado di assicurare un decente livello di spettacolo? Nemmeno questo è un problema della Fifa, ovvio. Si gioca solo per soldi e per allargare l’elettorato: più federazioni, più voti. In Europa, un gruppo di presidenti dal business incorporato aveva pensato a un torneo privo di meriti sportivi, si iscrivono solo i club che hanno un po’ di storia. Anche per evitare che questo folle progetto chiamato Superlega prendesse forma, la Uefa ha allargato il calendario della sua Champions (e dell’Europa League). Due partite in più, due incassi (e tanto altro) in più per ogni squadra. Ma se in Italia tutti questi soldi rientrassero all’interno di un sistema, anziché finire nelle casse dei club più ricchi, se ci fosse vera compartecipazione con le categorie inferiori, se venissero dirottati per migliorare le nostre fatiscenti strutture, allora ci sarebbero dei riflessi interessanti per tutto il calcio. Invece, così come funziona adesso, la Serie C, i dilettanti, le società che si occupano del calcio dei ragazzini hanno una scarsa assistenza. Anzi, se lo spazio viene totalmente occupato dai grandi club, con la maxi-Champions, col Mondiale per club e col Mondiale per 48 nazionali, quale futuro possono avere le altre categorie? Vista dal mondo del calcio è un Eldorado. Vista dal calcio è una la triste situazione. Lo dicono tutti, allenatori, giocatori, commissari tecnici, tutti protestano e nessuno fa qualcosa. Il motivo è semplice, pur se paradossale: giocatori e allenatori, i veri protagonisti del calcio, sono le vittime ma al tempo stesso i carnefici di questo mondo che li priva del gioco vero, dei sentimenti e mette a rischio la loro salute, ma che arricchisce i loro conti in banca. Lo sostengono a gran voce Guardiola, Klopp, da noi Sarri, ma anche tutti gli altri tecnici impegnati nelle coppe, e con loro i giocatori, almeno quelli dotati di un po’ di equilibrio. Potrebbero dire “basta”, ma non lo fanno. Si allenano con l’iban prima che col pallone. A pensarci bene, però, i primi, veri colpevoli siamo noi, i milioni, i miliardi di persone che amano il calcio dimenticando le storture, le follie, le esagerazioni del suo mondo. Diceva un allenatore toscano: “Quando accendo la tv e sullo schermo vedo verde, mi fermo lì davanti a guardare”. Perché è questa la nostra grande contraddizione e anche la vera ragione per cui i dirigenti possono continuare sulla loro strada fino allo sfinimento (del calcio): senza pallone non possiamo stare.