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L'effetto Ronaldo

Il finale l’ha scritto Michael Connelly; i trentasette capitoli precedenti, Ronaldo: a Firenze vedo Preziosi che alla notizia del 3-1 dell’Inter abbraccia tutti quelli che incrocia festeggiando la salvezza del Genoa e Prandelli, sorridente, che esce dal campo applaudendo; nel frattempo, a San Siro, il Var annulla il gol di Brozovic e Banti caccia Keita (secondo giallo per una trattenuta su Dragowski) costringendo gli interisti a soffrire terribilmente per altri minuti. Racchiuse nei minuti conclusivi le emozioni mancate per nove mesi.

La buona notizia è che è finito. È finito il campionato più noioso e dimenticabile del dopoguerra e chi afferma il contrario si dia al ballo che è un gran bel vivere. E dire che l’estate scorsa, quando arrivò in Italia Ronaldo il fenomeno da 300 e passa milioni, pensammo che avrebbe giovato non solo alla Juve ma anche alle altre squadre, a una Serie A sempre meno attraente poiché sempre più scontata.

Sbagliammo: Cristiano ha finito per depotenziare la concorrenza, le ha tolto la voglia di investire e lottare per l’obiettivo principale - non dimentico le parole di Totti che parlò di corsa aperta solo al secondo, terzo e quarto posto; Totti che ha inconsapevolmente ispirato tanto il presidente federale Gravina, sostenitore di playoff e playout, quanto Massimo Gramellini che ieri sul Corriere della Sera si è chiesto se almeno nel calcio sia possibile far coesistere sovranisti e globalisti restituendo smalto al torneo nazionale senza compromettere disegni più vasti e evitando rischi di sbadigli e biscotti.

A dicembre, lo ricordo, abbiamo avuto la certezza che la Juve avrebbe vinto l’ottavo consecutivo; da aprile, la cosa più eccitante che abbiamo potuto raccontare è stato l’inseguimento al quarto posto.

Al quarto, capite? Solo due i miracoli stagionali, quelli di Gasperini a Bergamo e di Mihajlovic a Bologna, 30 punti in 17 partite con una proiezione da zona Champions (67). Una mezza impresa l’ha compiuta Gattuso, costretto ad allenare in condizioni mai ideali, ma i 68 finali non gli sono bastati per riportare il Milan in Champions.

Più numerosi i fiaschi: in primis quello della Roma americana che ha chiuso sesta dopo aver cacciato Di Francesco, registrato le dimissioni del disastroso Monchi e lasciato al loro destino il traghettatore Ranieri e soprattutto il traghetto De Rossi, l’ultimo garante della romanità (tra i tanti striscioni d’amore e lacrime esposti all’Olimpico, segnalo questo: “Il mio io in campo”). La Lazio ha salvato la stagione con la Coppa Italia; la Fiorentina si è dimessa insieme a Pioli e Montella ha navigato nei vuoti.

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