Corriere dello Sport

Rendi la tua esperienza speciale

Home

Calcio

Formula 1

Moto

Motori

Basket

Tennis

Altri Sport

Stadio

Foto

Video

Corriere dello Sport

LIVE

La grazia e la denuncia

«Noi siamo spagnoli, africani, fenici, cartaginesi, romani, arabi, pisani, bizantini, piemontesi», scrive Grazia Deledda in una bella poesia intitolata “Noi siamo sardi” e distribuita dal Cagliari sugli spalti dello stadio Sardegna Arena. «Noi siamo razzisti», denuncia Antonio Conte, ricordando che, al ritorno in Italia dopo tre anni, ha trovato «tantissimo odio e rancore» e un Paese «peggiorato all’ennesima potenza».

La poesia e la denuncia stanno una di fronte all’altra nello stesso spazio pubblico. E raccontano due verità opposte. La prima ci mostra che finalmente le società di calcio la smettono di dire “io non c’entro”. Anzi, ci mettono la faccia con coraggio e intelligenza, per spiegare, con i versi della prima donna italiana insignita del Nobel, che il massimo di identità può coincidere con il massimo di meticciato. In Sardegna, e non solo. La seconda ci toglie l’alibi dei dieci defi cienti, con cui fi no a ieri si è cercato di circoscrivere il fenomeno dei cori xenofobi negli stadi. E riconosce che il razzismo e l’insulto sono il nuovo lessico sentimentale del Paese.

Ma Conte dice di più, chiamando in causa la responsabilità delle élite, a cui lui appartiene, e del giornalismo, «tutti colpevoli» nel «fomentare l’odio». Perché in un modo o nell’altro hanno sdoganato la violenza separandola dalla vergogna, declinandola in una dimensione falsamente anticonvenzionale, e quindi a suo modo falsamente originale, e quindi a suo modo falsamente popolare, e quindi a suo, suo, suo modo falsamente democratica. Cosicché nessuno più si vergogna di dire e scrivere bestialità, e pochi si preoccupano di sbattere fuori dalla porta chi le dice e chi le scrive. Questo è l’equivoco che nutre il razzismo.

Se tu metti in un talk un conduttore a fare da vigile urbano e due antagonisti a discutere se è vero o no che gli immigrati sono delinquenti, stai segando le gambe alla democrazia. Che, come spiegò una volta il grande scrittore triestino Claudio Magris, non è mai neutrale, ma vive e si rigenera ridefi nendo i suoi valori. E discriminando ciò che ha diritto di essere detto e discusso da ciò che invece deve restare fuori dalla porta. In questa confusione il razzismo e l’antirazzismo rischiano di essere due opzioni alternative.

La neutralità del calcio è stata fi no a ieri interessata. Appaltando in un comodato gratuito gli spalti alle comunità chiuse degli ultrà, le società hanno creduto di coltivare e controllare il consenso. Senonché il tribalismo di questi gruppi è andato slittando in senso contrario rispetto alle aspettative di civiltà e di educazione della società. Più le famiglie e i tifosi si abituavano a considerare la partita uno spettacolo fruibile come consumo culturale, più gli ultrà rivendicavano l’esclusiva della rivalità sportiva come il collante di un’identità settaria e guerrafondaia. Così gli stadi sono diventati spazi franchi e inospitali, al confronto con la crescente comodità dei salotti televisivi. Quando le società si sono accorte di aver perso le famiglie, hanno iniziato a coccolare gli ultrà, nel timore di veder scendere quel già misero 11 per cento di introiti da stadio. Così per anni hanno chiuso un occhio, e talvolta due, al settarismo, all’illegalità e alla violenza dei nuovi padroni delle curve.

Questi teppisti invecchiati e malvissuti, come ben li defi nisce Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera di ieri, pretendono che sugli spalti valgano solo le loro leggi e le loro usanze. Se i giocatori della Lazio omettono di rendere omaggio al capobranco assassinato in un agguato mafi oso, gli ultrà gli fanno divieto di festeggiare il gol sotto le curve. E quelli obbediscono. Se Lukaku grida allo scandalo dei cori di Cagliari, gli ultrà nerazzurri off rono ai colleghi sardi la loro solidarietà, per chiarire al centravanti belga che loro e solo loro possono stabilire che cosa è, o piuttosto non è, razzismo. Se la procura arresta 12 capi dopo anni di ricatti alla Juve, denunciati troppo tardivamente, gli ultrà annunciano lo sciopero del tifo e i picchetti davanti allo stadio, per impedire ai tifosi comuni di entrare, perché in quello spazio - questo è il messaggio - comandano loro.

Ecco perché, ha ragione Conte, la situazione è peggiorata. E per cambiare musica, bisogna accordare l’orchestra e fare in modo che tutti suonino come ha fatto Bernardeschi. Beccato dai teppisti per aver regalato la sua maglia a un gruppo rivale, l’esterno bianconero ha risposto su Instagram che non esistono tifosi meno degni di altri, poiché «ad unirli non è il nome del loro gruppo ultrà, ma la passione». Da oggi non basta dire “io non c’entro”, e far fi nta di non vedere e non sentire. Vale per i tifosi veri, ma soprattutto per gli atleti, per i club, per gli arbitri, per le istituzioni e la giustizia sportive. E per il governo. Prima che sia troppo tardi.

Corriere dello Sport in abbonamento

Insieme per passione, scegli come

Abbonati all'edizione digitale del giornale. Partite, storie, approfondimenti, interviste, commenti, rubriche, classifiche, tabellini, formazioni, anteprime.

Sempre con te, come vuoi