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Lega, la minoranza assoluta

ANSA

Paolo Dal Pino o è un fenomeno paranormale o un soggetto terribilmente scomodo. In un anno e tre mesi (presiede la Lega dall’8 gennaio 2020) è stato capace di unire, mettendoseli contro, Juve, Inter, Napoli, Lazio, Verona, Atalanta e Fiorentina. In altre parole ha spinto a coalizzarsi, per farsi abbattere, il lupo con l’agnello, il gatto con il topo, il leone con la gazzella, ovvero società storicamente nemiche e con interessi quasi sempre divergenti. Dai sette samurai è stato accusato di ogni nefandezza: avrebbe “disturbato” il calcio italiano al punto che, con due lettere di pura aggressione inviategli dal prestigioso studio legale Chiomenti, Agnelli e Lotito, Percassi e De Laurentiis, Commisso e Setti, e Marotta (Zhang è in Cina o in viaggio) ne pretendono le dimissioni e lo denunciano addirittura per danni: gli hanno mosso una serie di rilievi sulla gestione dei diritti tv e dei fondi.

Premesso che dalla Lega i sette hanno appena ottenuto, grazie all’ad De Siervo, tutto quello che desideravano - la rinuncia all’ingresso dei fondi d’investimento e a una nuova governance, l’assegnazione dei diritti delle partite a Dazn e la soppressione dell’agognato (un tempo) canale -, l’aspetto assurdo della vicenda è che in qualità di presidente Dal Pino non ha alcun potere decisionale: può soltanto convocare le assemblee. Cosa che ha puntualmente fatto, oltretutto invitando alle sedute decisive un notaio a garanzia della correttezza del suo operato.

Cos’ha combinato allora per far incazzare i sette samurai, alcuni dei quali sono (erano) suoi amici di vecchia data? Urge una breve ricostruzione dei fatti più recenti: martedì, nel corso del consiglio della Federcalcio, della quale Dal Pino è vicepresidente vicario, Gabriele Gravina ha attaccato la Lega, biasimandone la litigiosità e i toni da osteria, e ha chiesto di modificare lo statuto abolendo la maggioranza di blocco, quella norma che, contraria alle direttive del Coni sulla maggioranza semplice, consente di imporre lo stop a qualsiasi iniziativa con soli 7 voti su 20. Dal Pino ha naturalmente sostenuto la posizione del numero 1 federale che vuole cambiare le cose, rendere più democratico e snello il calcio italiano, tutelando anche i diritti dei club medi e mediopiccoli. Che sono tredici, tra essi le big Roma e Milan, e Udinese, Bologna, Torino, Samp e Genoa, che sono parte della storia nobile del nostro calcio.

Il vero bersaglio dei sette non è Dal Pino, bensì Gravina, il destabilizzatore del potere autocostituitosi in via Rosellini. Gravina - lo ricordo - è la figura istituzionale che ha permesso alla serie A di ripartire lo scorso giugno sotto pandemia e ha da poco ottenuto la riapertura parziale degli stadi per gli Europei; è lo stesso che, ricorrendo a una legge dello Stato, ha permesso ai club in difficoltà (Inter) di ritardare il pagamento degli stipendi e impresso un’accelerazione alla giustizia sportiva impegnata a risolvere numerose pendenze e gravi irregolarità.

È peraltro risaputo - non cito la fonte - che ogni tentativo dei governanti chiamati a governare gli italiani, quale che sia la loro condizione, popolare o privilegiata (come in questo caso) non è difficile, ma inutile. Prova ne è la periodica necessità di affidarsi - con piena legittimità - a forze esterne di garanzia, come ad esempio Mario Draghi. Nella fattispecie, vien da pensare che i sette samurai meriterebbero di essere governati da un Erdogan, non nella forma al medesimo sgradita di dittatore ma di semplice gestore autoritario o appena autorevole. Quello che essi non sono, preferendo una litigiosità permanente, sintomo di deleteria debolezza. La sensazione è che l’alleanza Gravina-Dal Pino sottintenda un ritorno alla legalità che a qualcuno disturba non poco.

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