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Lazio-Juve, il grande match

È una sfida tra pesi massimi divisi da idee e vocazioni quasi opposte. Nelle parole della vigilia graffi che rendono ancora più intrigante la partita dell’Olimpico. Assenze importanti e fame di punti

Seguendo le conferenze stampa di Allegri e Sarri, mi è tornato in mente il Mondiale ’98 in Francia, per la precisione le settimane a Lione, una splendida avventura professionale vissuta dietro l’Argentina e insieme a una singolare compagnia di inviati, tra i quali l’immaginifico Melli, in quegli anni al Corriere della Sera. Fin dal secondo giorno Franco soprannominò “la Gattina” un collega assai bravo e con una spiccata attitudine al graffio.

Ieri le due gattine - pardòn, i due allenatori - si sono scambiati le inevitabili carezze, ma tra le righe delle loro risposte ho (abbiamo) individuato qualche unghiata.

Vittoria o bel gioco, bel gioco o vittoria, Allegri o Sarri, arieccoci: il tema che si è nuovamente trattato meriterebbe una rinfrescatina, lo so. Tanto si finisce sempre per tornare al sor Mazzetti che tra l’82 e l’84, allenando il Monza, spiegò a Adriano Galliani, giovane e appassionatissimo dirigente, che nel calcio esiste una sola verità consacrata dal campo: «Chi vince è un bravo ragazzo e chi perde una testa di cazzo». Di quelle parole Galliani ha fatto il proprio manifesto ideologico.

Con altri termini e un ragionamento più articolato, Allegri ha riaffermato lo stesso principio: «Quando parlo di scienziati intendo dire che il calcio è uno spettacolo, arte fatta da giocatori. Sono le giocate a rimanere impresse, l’allenatore deve dare organizzazione e idee, mettendo i suoi nella miglior condizione. Il calcio è bello perché è opinabile, ognuno può dire la sua, ma tutto si riduce a se vinci o se perdi. Le chiacchiere le porta via il vento perché non contano. Il giudizio su ogni partita è condizionato dal risultato. Alla Nazionale non si dava un euro e ha vinto l’Europeo. Ora, per un errore su rigore, è stata massacrata una settimana».

In fondo mi secca - l’ho già scritto e lo ripeto - ridurre Lazio-Juve e Sarri-Allegri alla sfida tra i massimi esponenti presenti in serie A delle categorie risultatisti e giochisti. Ho provato a spiegarlo anche in redazione, ritrovandomi in minoranza.

Sono giunto a una conclusione: il giochista può trasformarsi - per necessità, debolezza o contratto - in risultatista, il percorso inverso non è invece possibile. Il re dei giochisti, Pep Guardiola, ha trasformato il suo gioco da quando è al City e non può più contare su Messi, il più grande produttore mondiale di strappi e di uno contro uno riusciti, che garantiva profondità e efficacia al tikitaka. Immutabile resta invece il Loco Bielsa, che non è mai stato un giochista: ancora oggi, al Leeds, sviluppa princìpi che lo rendono unico e non classificabile. Tornando a Sarri, come abbiamo ripetuto più volte, il Chelsea e le caratteristiche della Premier l’hanno indotto a cambiare il registro tattico puntando meno sul palleggio e più sulle verticalizzazioni rapide in grado di sorprendere le difese avversarie. La Juve, dove i giocatori avevano pochissima voglia di cambiare sistemi, dal momento che venivano da otto scudetti di fila, e la Lazio ce l’hanno fin qui mostrato più “convenzionale”, ma chi lo “idolatra” è convinto che abbia soltanto bisogno di altro tempo per riuscire a mostrare un gioco vicino a quello che praticò il suo Napoli.

Quanto all’aggettivo “inallenabile” riferito alla sua stagione juventina («ogni squadra è allenabile», l’unghiata di Max) Sarri ha detto la verità: non pronunciò mai pubblicamente quella parola, fu un giocatore a raccontare al cronista che anche i muri di Vinovo l’avevano registrata. Fu parolaccia? Forse ricorda un termine simile che in politica fece rumore internazionale perché attribuito a un’altra signora? Il bello è che questo sublime esemplare di blablabla diventa il clou della chiacchiera di vigilia che, non potendo riferirsi a concretezza per carenze d’organico e altro, magari anche di idee, diventa, grazie a due realisti come Sarri e Allegri, una lezione di Coverciano per aspiranti allenatori. E giornalisti. «Quella era una Juve arrivata alla fine di un ciclo, infatti poi hanno ringiovanito», il graffio finale di Sarri. Sul ciclo conclusosi un anno prima - e lasciatogli da Pirlo - è voluto risalire Allegri.

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