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Quarto posto o Coppa Italia? Pasta o denari

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Quarto posto o Coppa Italia? Pasta o denari LAPRESSE
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Parallela alla volata-scudetto, la Coppa Italia vinta dal Bologna ha sollevato un vespaio che nei ruspanti seminari del Novecento nessuno agitava: uomini di sport, preferite piazzarvi quarti - e guadagnarvi, così, l’ultimo balcone con vista Champions - o alzare, comunque, un trofeo?

Risulta che, in caso di doppietta (Supercoppa, Coppa Italia), Gerry Cardinale avrebbe confermato Sergio Conceiçao, il cui Milan, nono in classifica, è stato escluso da tutto: persino dalla Conference. Sono anni - meglio, lustri; meglio ancora, decenni - che si spara addosso alla formula della coppa domestica, lontana, lontanissima, dalla «nonna» inglese, ligia a principi di rigorosa democrazia: in attesa di arrampicarsi in vetta, si comincia dalla base, nel senso letterale del termine. La base, cioè i dilettanti: e se è un sogno, non svegliateli. Da noi no, il «razzismo» di censo tutela e privilegia le Grandi in virtù di un fattore campo che strozza le emozioni e le sorprese, anche se talvolta qualche verdetto evade dalle sbarre del regime protettivo e coercitivo: pensate al pericolante Empoli che, ai rigori, ha eliminato - in trasferta, naturalmente - sia la Fiorentina sia la Juventus. 

In Francia, la favola dei «pescatori» del Calais, finalisti nel 2000, ispirò fior di romanzi, di inchieste, di analisi alternative al potere dei «soliti» noti. Beati loro. E pazienza se poi l’epilogo baciò i canarini del Nantes, non esattamente i ragazzi della via Pál. Figlio del secolo scorso, non ho dubbi nello scegliere le coppe nazionali rispetto alla «medaglia di legno» che pure scoperchia i lingotti della competizione più bulimica e ricca al mondo. Di recente, lanciai un sondaggio tra i «degenti» del mio Blog-Clinica. Mi chiusero alle corde, in netta minoranza, trattandomi alla stregua di un vecchio bacucco, paragonabile ai soldati giapponesi che strisciando nel folto della boscaglia, ignari dell’esito della guerra, continuano a combattere.  
Domanda: come ci regoleremmo, un domani, se arrivare noni o decimi (occhio, ci siamo vicino) offrisse l’atterraggio sull’ennesima banca di consolazione? L’albo d’oro non va mitizzato, ci mancherebbe, ma nemmeno ridotto a un goffo ricettacolo di patacche. Sarà sempre la qualità - del torneo, della squadra, dei rivali - a calibrare le gerarchie, senza però trascurare l’antico proverbio cinese secondo il quale «Quando il saggio indica la luna, lo stolto guarda il dito». Metafora per metafora, la luna è l’etichetta e il dito il montepremi, o viceversa? 
E dal momento che salire sul carro non costa niente, al di là di una nomea tartufesca, non si può non sorridere all’idea che per Dino Sarti, cantore di Bologna e del Bologna, «Butta la pasta, mamma» era un incipit, un invito: «Non posso mica far tardi, eh. Dov’è la mia sciarpa, il coso, il fischietto? Boia d’un giuda, ragâz, a vegn sòbbit, mi metto il berretto». Per Dan Peterson, che con la Virtus conquistò il primo scalpo nel nostro Paese (la Coppa Italia, toh), «Mamma, butta la pasta» riassume invece l’enormità di un vantaggio tale da scoraggiare ogni genere di rimonta. E allora, vai di pentola. Altro che «quarti» di denari. 

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