Sul prato dell’Olimpico ho camminato verso la curva insieme a mio padre che non c’è più da otto anni, da un altro 14 del mese, ma di marzo. Non ho mai capito se si fosse realmente appassionato al calcio, ogni tanto raccontava di partite giocate al campo Savena tra scapoli e ammogliati, dalle nostre parti si diceva giovani contro becchi. Lui tra gli ammogliati, naturalmente; becco no: rispetto per mamma.
Allo stadio ci accompagnò una sola volta, il 27 maggio del ’68, 2-2 col Ferencvaros. A noi sarebbe piaciuto tornarci con lui, non fu più possibile. Tempo fa mio fratello ricordò che la prima curva che ci ospitò «non era l’Andrea Costa, bensì la San Luca».
Ci sono partite che ci riportano alle origini. Per questo mercoledì all’Olimpico non potevo proprio mancare: ho accarezzato subito l’idea di presentarmi indossando la maglia con i colori della vita. Chi mi vuole bene era contraria, considerandola un’esibizione inopportuna, visto il ruolo di direttore del giornale che ricopro da sette anni. Ma quando ho visto la bianca dedicata, così bella, ho cercato istintivamente una sponda e scritto a Mourinho: José, tu che faresti al posto mio? «Io sì, cazzo, perché no?», la sua risposta «sei indipendente quando scrivi, però puoi avere un club che ami. Non vedo perché non dovresti. È anche bella».
Se lo dice José lo posso fare. E poi quando mi ricapita? Aspettavo un giorno come questo da mezzo secolo, in fondo sono diventato giornalista sportivo per amore del calcio e del Bologna, per Bulgarelli, Haller, Perani, Janich, Tumburus, Negri, Pascutti, Romano Fogli, ma anche Colomba, Fiorini, Eneas, Garritano, Marronaro, il primo Mancio, Pagliuca, Signori, Baggio, Sinisa, i campioni che hanno alimentato la passione.
Così, per una sera, ho messo da parte il buonsenso e riprovato le sensazioni della vigilia, la tensione degli ultimi minuti, la gioia al fischio finale quando tutto è andato come avrei voluto.
Stavo rientrando in hotel con i pensieri più dolci quando ho incrociato Cesare Cremonini e un suo assistente che mi hanno invitato a scendere in campo. Serata doppiamente fortunata, mi sono detto, non mi lascio sfuggire l’occasione. Faccio il pieno.
L’emozione potente e indimenticabile l’ho provata avvicinandomi lentamente al muro rossoblù che colorava la Nord e cantava Dalla e Cremonini. Gli abbracci di giocatori che non avevo mai incontrato prima hanno fatto il resto: Cambiaghi, Casale, Ravaglia, e Orso. E poi Saputo, mai così felice, e Fenucci, i dottori Nanni e Sisca, amici da un secolo, e Italiano che sembrava non riuscisse a godere della festa: ce l’aveva con qualcuno, ma non ho indagato.
E Gianni Morandi che è da sempre passione, energia, presenza: per lui il Bologna è un amore senza stagioni.
Chissà cosa avrebbe detto mio “babbo” vedendomi di nuovo bambino, adolescente, felice per una vittoria di calcio: lui era un tipo emotivo, immagino che avrebbe pianto.
Non c’è un altro posto del mondo dove l’uomo è più felice che in uno stadio di calcio, sono parole di Camus. Io credo che esistano tante forme di felicità, quella di mercoledì sera è tra le più genuine, sane e senza difese poiché la gioia è condivisa con gente che ha qualcosa in comune con te. Il calcio è una passione remota e in alcuni momenti impone l’abbandono totale, impossibile nascondersi.