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Bologna, la faccia è tutto

Leggi il commento sul rinnovo di Italiano con i rossoblù

Caro Vincenzo, perdoni l’approccio confidenziale ma è anche il modo di esprimere la soddisfazione professionale e personale d’essere rappresentato da un presidente e da un tecnico che non partecipano alla Gran Riffa del Mercato ma siglano sollecitamente il contratto di reciproca fiducia, soddisfatti della stagione che hanno vissuto, sportivamente e umanamente, mentre il Bel Paese era attraversato dai dubbi del Milan-Allegri e del Napoli-Conte. Ed ecco l’effetto cascata provocato da Saputo & Italiano. Sicilianamente uniti.

Lei, Vincenzo, a Bologna ci ha messo la faccia, come pochi in passato. Come Cesarino, come Carletto, come Sinisa, e i bolognesi con gente come voi è come se ci vivessero in famiglia, consumando insieme le sconfitte e le vittorie, le prime macerandole insieme a un tiramisù, le seconde cantandole e facendo l’amore. (Parlo di anni verdi che spuntano eterni a ogni stagione d’uomo).  

Dirò di più, la notizia della sua conferma è arrivata insieme a un altro annuncio - e ne condivide l’importanza - che premia un altro “italiano” di valore: John Elkann, invece di perdersi dietro gli svolazzi d’idee della Juventus, ha preferito nominare il CEO di Stellantis nella persona di Antonio Filosa, un napoletano maradoniano che in gioventù ha lavorato in fabbrica ed è salito al vertice gradino per gradino. Come lei, Vincenzo, che io ho conosciuto quando sei anni fa allenava il Trapani dopo avere indossato la maglia granata dodici anni prima.  
Ricordo di aver celebrato la sua passione a TeleSud, diventata la succursale sicula delle mie comparsate. Ricordo chi mi disse, per meglio precisare il suo carattere: «Tirava i rigori da fermo». E un altro: «Ha doti da regista». Erano Ignazio Arcoleo, il suo maestro, che venne a prenderla a Partinico e la certificò calciatore professionista, e Andrea Bulgarella, il grande presidente che la consegnò al Verona e lì cominciò tutto.  

Non ho nulla da rimproverarmi del passato se non la fredda accoglienza che le feci in rossoblù dopo le prime battute di Champions. Mi accorsi che tutti le perdonavano - e si perdonavano - sconfitte e meschine figure. In particolare in quella trasferta in cui vi sentiste soli. Ma affascinati. Io sono un caloroso estimatore dell’antico Liverpool di Keegan, Dalglish e Souness e sono entrato ad Anfield segnandomi come se fossi in chiesa, ma non ho gradito che una storica partita diventasse una sorta di pellegrinaggio; così come non mi è piaciuto chiudere la stagione beccando tre gnocchi dal Genoa, storico rivale - a pistolettate - del nostro Bologna.  

Ma presto è venuto il gioco, il “calcio all’Italiano” con una squadra di stranierotti che dopo un po’ sembravano tutti nati alla Bolognina. E così smetto di adularla e le do appuntamento alla prossima partita di Coppa. O a Pantelleria, perla nera della sua terra. Faccia lei. E intanto grazzi di cori. 

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