Quando e come, pesa il momento. Mai avrebbe voluto affrontare la Lazio alla penultima di campionato e sino al gol di Vasquez, capace di gelare il Maradona e inchiodare il Napoli sul 2-2, non esisteva lo stesso tipo di pressione. Simone Inzaghi, dopo il 4-3 epico ai supplementari sul Barcellona, era entrato in modalità Champions, pensava alla finale del 31 maggio e aveva già stabilito il piano di avvicinamento a Monaco di Baviera, calcolando minutaggi e gestione dei titolarissimi. Ora, proprio la Lazio, rappresenta l’ultima possibilità per riacciuffare uno scudetto che sembrava perso. Un labirinto di emozioni e di pensieri. Un vero romanzo, perché si tratta della squadra della sua vita, ventidue anni filati tra campo e panchina a Roma, dove torna spesso, anche per tagliarsi i capelli dal solito barbiere della Collina Fleming, perché le radici non si dimenticano. Dalla Capitale, a fine mese, partiranno tanti suoi amici per andarlo a sostenere nella notte più importante della carriera, di fronte al Psg di Luis Enrique. Ora, invece, deve battere Baroni e Lotito, il suo ex presidente, in corsa per la Champions.
Inzaghi e quel divorzio dalla Lazio
Tutto torna. Anche le date. L’addio era stato traumatico, trascinato per mesi e consumato nella notte tra il 26 e il 27 maggio 2021, la proposta di rinnovo presentata a cena da Lotito e Tare, l’appuntamento in segreteria con Calveri per firmare la mattina successiva, l’inserimento di Marotta e dell’Inter, la notte trascorsa con gli occhi sbarrati a chiedersi cosa fare. Diciamo la verità: Simone aveva aspettato a lungo, forse troppo, che Lotito decidesse se prolungare o meno dopo cinque anni in costante progresso. All’estate precedente risalgono le foto del presidente e di Inzaghi davanti alla clinica in cui era venuto alla luce Andrea, l’ultimo figlio, “pizzicati” mentre parlavano del contratto. Bisogna essere onesti: se non avesse avuto la forza e il coraggio di lasciare la Lazio, non avrebbe vinto tanto e la sua carriera non si sarebbe impennata con uno scudetto e due finali Champions in tre anni. In queste ore si chiederà se utilizzare i big per battere la Lazio o se confermare il piano immaginato una settimana fa. Poi ci sarà tempo e modo di decifrare il suo futuro. IL PASSATO. Certo si tratta di un incrocio del destino e ricchi sono i precedenti. L’Inzaghi centravanti soffiò uno scudetto all’Inter o almeno contribuì a spingerlo verso Torino. Il 5 maggio 2002, con uno stadio Olimpico gemellato e vestito solo di nerazzurro, Ronaldo finì in lacrime. Cuper sembrava una statua, la Juve in festa per un sorpasso inatteso. La doppietta di Poborsky gelò gli interisti, incapaci di scrollarsi di dosso la paura. La Lazio vinse 4-2, provando in tutti i modi nei primi 45 minuti ad agevolare la discesa: dopo l’intervallo diventò partita vera. Cragnotti voleva l’Uefa. Simeone, quasi impietrito, segnò di testa il 3-2. Simone, al minuto 73, lo imitò spedendo in rete il pallone del 4-2 sul cross di Cesar. Al 2 maggio 2010 risale lo striscione “Oh no” della Curva Nord quando tutto l’Olimpico chiedeva alla Lazio di far passare l’Inter per scongiurare il possibile scudetto della Roma. Mourinho si impose 2-0 e forse non avrebbe avuto difficoltà a vincere anche se non si fosse giocato in un’atmosfera surreale. Simone non era in campo: solo 3 presenze nell’ultima stagione da centravanti, di lì a pochi giorni si sarebbe ritirato, entrando da tecnico nel vivaio della Lazio. Al 20 maggio 2018 risale il ko (2-3) con l’Inter di Spalletti. Vantaggio all’intervallo con Felipe, il rigore provocato da De Vrij (laziale già interista: Tare spinse per farlo giocare, Simone non era convinto), il 2-2 dal dischetto di Icardi e il sorpasso firmato da Vecino, oggi laziale. Quella notte le prime crepe con Lotito. Il disgelo, dopo l’addio, è stato avviato da Inzaghi l’ultima volta che si sono incrociati all’Olimpico. Il 6-0 ha lasciato il segno su tanti laziali, furiosi perché l’Inter di Inzaghi avrebbe dovuto mollare e non infierire dopo averne già segnati tre o quattro. Le follie social del calcio.