«L’hanno voluta più di noi» è una frase che colpisce quanto la mattanza calcistica che si era da poco conclusa. L’ha pronunciata Nicolò Barella che ancora a caldo, erano passati al massimo 15 minuti, ha commentato la disfatta con lucidità invidiabile. È una frase tanto sincera quanto dura da digerire. Arrivi all’appuntamento più importante non solo della stagione ma probabilmente degli ultimi tre anni e confessi di essere entrato in campo con meno determinazione dell’avversario. Con meno voglia.
Forse è da queste parole che dovrebbe scattare quella che nei partiti si chiama l’analisi del voto. Perché la frase di Barella - non proprio uno qualunque nell’Inter - svela che sì, si potrà e si dovrà discutere di tattica, di come e quanto Luis Enrique ha surclassato Simone Inzaghi. Ma, soprattutto, si dovrà capire com’è che si è entrati in campo già sconfitti. Svuotati. Con quel primo gol, dopo 12 minuti, che nemmeno nei tornei scolastici.
Non sappiamo se l’Inter abbia sopravvalutato sé stessa. È arduo dirlo dopo aver eliminato, uno dietro l’altro, Bayern e Barcellona. Bisognerà però riflettere sull’evidenza che il gruppo Inzaghi è arrivato sì in fondo a tutte tre le competizioni ma è arrivato cotto. Con l’acido lattico nelle gambe e, ove mai fosse possibile, nella testa. Nel momento decisivo devi essere lucido, altrimenti finisce sui pedali. Ti pianti, si dice in gergo ciclistico. E l’Inter si è piantata in tre finali di competizione su tre. Forse a essere sopravvalutata è stata la profondità della rosa. Che è sì profonda se consideriamo il numero di calciatori di buona o discreta qualità. Ma quanti di quelli in panchina sono realmente arruolabili per le partite decisive? Questo è il punto. Per le partite importanti, gli uomini sono quelli. E sono arrivati scoppiati. Svuotati. I parametri zero Taremi e Zielinski, per fare due nomi non a caso, si sono rivelati due cocenti delusioni. Uomini su cui non puoi fare affidamento quando il gioco si fa non diciamo duro, quantomeno problematico.
E ora è il futuro ad angosciare l’Inter. È ovvio che urge un rinnovamento. Ma come? Seguendo quale strategia? E, soprattutto, con quante risorse? Fin qui Marotta ha coperto da solo l’enigma Oaktree. Ma lo ha fatto con quel che all’Inter già c’era. Ha provato a mescolare le tessere del puzzle. Un gioco delle tre carte alla milanese. Ora, però, le riserve sono esaurite. Nelle dispense non c’è più nulla. Bisognerà investire per rinforzarsi, non c’è altra strada. È il momento in cui si capiranno le reali intenzioni del fondo californiano.
In questo, la finale di Monaco di Baviera è stata la lezione finale di strategia aziendale non solo tattica. Luis Enrique ha insegnato al Psg come si costruiscono le squadre di calcio. Con i soldi, per carità. Tanti soldi. Ma non per comprare divi da album delle figurine. Il Psg ha saputo investire. I 45 milioni spesi per Willian Pacho sono stati benedetti. Così come i 50 per Doué l’eroe della finale e i 60 per Joao Neves. E i 75 per Kvaratskhelia dove li mettiamo? Parliamo di calcio dei ricchi. Ma ricchi intelligenti. Al Khelaifi sta ancora ridendo pensando a Florentino Perez e alla stagione del Real Madrid con Mbappé. È davvero un caso che il Psg senza di lui abbia vinto la sua prima Champions mentre il Real Madrid con lui sia andato fuori da tutto? A ogni livello si vince l’organizzazione. In campo e fuori. Poi, più soldi hai e meglio è. A patto che tu sappia spenderli.