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La Lazio nelle mani di Sarri: Ulisse è tornato

Dopo l’addio di Baroni, una delle migliori persone capitate a Roma nell’ultimo trentennio, ci voleva una storia epica: come andrà a finire non lo può sapere nessuno

I saxes spingevano a fondo come i ciclisti gregari in fuga e Amerigo Sarri, quel giorno, era tutti loro. La melodia, l’esempio, la bandiera. Se ne era andato in testa, l’Amerigo, senza avvertire nessuno. Da anarchico, da eretico, da sovversivo. Artista dello scatto e della collezione di medaglie tra Rifredi e Montevarchi, per brevità chiamato passista scalatore, Amerigo aveva distanziato i compagni di squadra alla prima salita. Quelli si erano guardati increduli e poi avevano ringhiato «Sarri, Dio bonino, datti una calmata, oggi Fausto non vuole faticare». Non si era fermato, non aveva rallentato e li aveva mandati persino a fare in culo. Loro, Coppi, le regole. E aveva continuato a imprecare, anche dal fosso in cui l’avevano buttato, prima di guardare il cielo e iniziare a ridere perché la libertà ha un prezzo solo se non ne sai riconoscere il valore. 

Sarri non ha mai smesso di sognare

Il nuovo allenatore della Lazio non è il tipo d’uomo che si perde in nostalgie, ma è lecito pensare che sia tornato per rabbia e voglia di avventura, l’ultima, da vivere con il vento in faccia e la porta spalancata sull’utopia. Maurizio Sarri non ha mai smesso di sognare. Sognava da ragazzo, quando suo padre aveva smesso di salire in bici, ma pedalava da operaio a Bagnoli. Sognava da uomo adulto, all’epoca in cui lavorava come agente all’ufficio cambi del Monte dei Paschi di Siena, si occupava di transazioni e proprio come Paolo Villaggio aspettava le 17 per poter correre al campo e allenare nei campionati minori. Sogna oggi, dopo una sosta forzata di molti mesi dalle parti di Matassino: «Quando torno a casa in Toscana mi sento un estraneo. Negli ultimi anni ci avevo dormito sì e no trenta notti» perché gli intimi dolori e i lutti familiari che pretendono il silenzio alla lunga puoi lenirli soltanto nel rumore di uno stadio: «Basta che stai fermo un anno e queste cose le rimpiangi». Sarri ha incontrato quelli grandi quando aveva superato da un pezzo i cinquanta, ma nessuno può dirgli che i primi, quelli tenuti insieme con lo spago e i tubi Innocenti, fossero meno veri. Di leggende come questa, smarrite nella memoria, la valigia di Maurizio Sarri è piena. Tutto il tempo in controluce se ne va e la clessidra suggerisce che a sessantasei anni non se ne possa più sprecare guardandosi alle spalle.

Sarri, la determinazione

Giocava da difensore, a Figline, dove il figlio Nicolé oggi possiede la locale squadra locale di calcio e la moglie Marina, ai tempi del Covid, distribuiva gratuitamente migliaia di mascherine ai cittadini e lo chiamavano il secco. Si incantava a vedere il figlio di un imbianchino, Kurt Hamrin, il suo tecnico dell’epoca, dipingere punizioni perfette a fine seduta. Hamrin avrebbe voluto trasformare Sarri in centravanti. Non ci riuscì: «Al termine della stagione fu chiaro che io non potevo fare l’allenatore e Maurizio non sarebbe diventato un grande calciatore». La determinazione, quando non è uno slogan, trova sempre un pertugio per farsi strada e Sarri, cresciuto in una campagna piena di sterrati, salite e cicale, si trasformò in formica. Accumulò nozioni. Del lavoro in banca introiettò senso dell’organizzazione e capacità decisionale, degli anni sul campo schemi, fogli, ossessioni felici e scaramanzie. Al Cavriglia, portato dalla promozione in eccellenza, i ragazzi lo aspettano poco prima del tramonto, ma il maestro tarda ad arrivare. Un gatto nero ha attraversato la strada e Sarri si rifiuta di proseguire. Lascia l’auto, cammina, trova una cabina telefonica, contatta la società: «Sono fermo e fermo resto. Mi muovo solo se passa prima un’altra macchina e per ora non ne vedo». Già all’epoca, Sarri era in un romanzo di John Fante: «Questa sì che era vita: girare, fermarsi e poi proseguire liberandosi di ogni tensione, una sigaretta dopo l’altra».

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