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Spalletti, gli hanno tirato le uova ora hanno la sorpresina

Era il 30 aprile, il Napoli era già in Champions ma il pullman fu bersagliato all’arrivo allo stadio e la squadra processata con slogan e striscioni. È stato l’inizio della rivoluzione che sa di impresa  

NAPOLI - Da non credere: i duri e puri arrivarono un paio d’ore prima che cominciasse la partita, muniti di uova e di slogan, come se non ci fosse un domani. Ma il 30 aprile del 2022, quando stava per cominciare Napoli-Sassuolo, quella squadra solo «umanamente imperfetta», aveva comunque imbandito la tavola per sistemarci su l’argenteria della Champions. Le vigilie sono tutte uguali, più o meno, ma quando Spalletti salì sul pullman, e con lui i calciatori, pur portandosi dentro l’amarezza per aver visto svanire lo scudetto tra la Fiorentina, la Roma e poi l’Empoli, potevano sentirsi soddisfatti di quel terzo posto, in linea con il Progetto: erano riusciti a ricostruire un clima nuovo, almeno così sembrava, a undici mesi esatti dalla notte dei veleni, il 23 maggio del 2021, quando contro il Verona, però dopo averne perdute nove, la qualificazione in Champione era svanita e con essa, nella nube tossica d’una città ferita, s’erano dissolti pure un’altra cinquantina di milioni, da aggiungere a quelli della stagione precedente. Il calcio non ha memoria e Napoli-Sassuolo finì per trasformarsi (nonostante il 6-1) in una turbolenta passeggiata all’inferno, in uno stadio rivoltatosi contro chiunque.  

Sono volati via altri sette mesi e Napoli s’è ritrovata in una dimensione inedita, con lo sguardo perso in quell’orizzonte abbagliante nel quale c’è di tutto, anche la più disinibita fantasia: ma per arrivarci, è stato necessario - anzi, indispensabile - smontare i teoremi, ignorare gli striscioni, scivolare via da quell’atmosfera grigia e avvelenata. Il Napoli aveva già scelto la via di fuga da se stesso, con i suoi modi - anche un po’ bruschi, inconciliabili con la retorica di massa - s’era staccata da Insigne, il leader e il capitano; aveva deciso di non rinnovare, se non a condizioni accettabili, Mertens, il re del gol; e poi, via facendo, al mercato, non ha resistito alle lusinghe per Koulibaly e Fabian Ruiz, né ha voluto assecondare le richieste di Ospina, tuffandosi in una sfida rischiosa, di tutti - di Adl, di Giuntoli, di Spalletti

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La nuova era

Sarebbe stato semplice, magari non strategico, magari persino comodo non abbandonare quella comfort zone utile per tacitare l’umore strampalato e guadagnarsi un pizzico di consenso o di benevolenza o di tregua, sino alla successiva sconfitta: e invece, afferrando la bacinella, via l’acqua e pure il bambino, senza il minimo indugio. La svolta è stata epocale, è servita per recidere il cordone ombelicale con un tempo scaduto ed ha avviato un processo innovativo, tecnicamente e anagraficamente, in cui ci hanno infilato un georgiano (Kvara), un coreano (Kim), un uruguayano (Olivera), un argentino (Simeone), un francese (Ndombele), un norvegese (Ostigard) e anche due italiani (Raspadori e Sirigu), per fonderli con tutto quello che c’era e che non era poco. C’è voluto un po’, ed è legittimo, per strappare via quel velo di diffidenza, per mostrare a Napoli che stava per nascere un altro ciclo, al quale andava concessa fiducia, per scoprire che un coreano e un georgiano possedevano in sé la fisicità e il talento, la spregiudicatezza e la sana incoscienza per provare a scrivere qualcosa che appassionasse, fosse anche una letterina d’amore da lasciare sotto l’albero di Natale, addobbato - “grazie” al Mondiale in Qatar - con anticipo. Ma perchè non fosse esclusivamente un esercizio tecnico, in questa estate le uova erano ormai tornate al proprio posto, altro è stato fatto: squadra ringiovanita, rimodellata tatticamente, con sforbiciata salutare del monte-ingaggi e un’idea “sovversiva” della filosofia aziendale post-moderna. E pensare che poteva venirne fuori una frittata... 

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