NAPOLI – Se Antonio Conte ha atteso fino all’ultimo, se ha detto no a ogni altro centravanti, se ha voluto solo lui, un motivo ci sarà. Romelu Lukaku era il tassello fondamentale per scolpire il suo nome nella storia del Napoli, a un anno dal centenario del club, in una stagione che aveva un solo obiettivo: rialzarsi dopo il crollo post-scudetto. Via Osimhen, ma solo a mercato inoltrato. Dentro Lukaku, già promesso sposo mentre si allenava in solitudine a Cobham, quartier generale del Chelsea. Dopo l’esperienza alla Roma, Big Rom voleva solo due cose: tornare in Italia, la sua seconda casa, e rimettersi nelle mani di Conte. Il suo mentore, il suo riferimento, l’unico allenatore in grado di farlo rendere al massimo. E con lui, ancora una volta, ha vinto lo scudetto. Lo aveva fatto all’Inter, lo ha fatto a Napoli, in volata contro la sua ex squadra.
Doppia doppia
È stato meno bomber dei predecessori, ma tanto completo, utilissimo. Lo dicono i numeri: già a metà aprile aveva centrato la doppia cifra in gol e assist. Lo dice il campo: perno dell’attacco, punto di riferimento per gli inserimenti, apripista per gli esterni e ancor di più per i centrocampisti d’inserimento, Anguissa e McTominay. Lukaku ha fatto a sportellate, ha lottato, ha incarnato alla perfezione il mantra di Conte per certe occasioni: sporcarsi le mani. Non ha mai cantato vittoria in anticipo, nemmeno quando l’Inter sembrava aver mollato e il Napoli si era preso il +3. Aveva citato Kobe Bryant: “Il lavoro non è ancora finito”. Ha tenuto alta la tensione, ha fatto da guida ai compagni più giovani, ha messo serietà e sacrificio al centro della sua stagione. Da agosto non si è più fermato: dal debutto alla terza giornata non ha saltato una partita. Neanche durante la pausa nazionali: chiese lui stesso al ct del Belgio di non convocarlo per ritrovare la forma perduta nell’estate dell’isolamento londinese.
I gol dello scudetto
È partito subito forte: in gol all’esordio contro il Parma, poi ha colpito Cagliari e Como, e ha iniziato a fare la differenza anche con le big. Ha steso il Milan a San Siro, firmato il più classico dei gol dell’ex contro la Roma a fine novembre. Poi tre reti in trasferta: Udinese, Fiorentina e Atalanta, nella partita della consapevolezza. Gol pesanti, decisivi. Come quello alla Juve, su rigore. Poi un piccolo passaggio a vuoto: cinque partite a secco. Ma al Maradona ha ripreso a colpire, sempre nelle sfide importanti: Fiorentina, Milan, Empoli. Con il Genoa è arrivato il tredicesimo. E poi, all'ultima con il Cagliari, è successo quello che sappiamo. L’abbraccio con Conte, lo scudetto sul petto, il cerchio che si chiude. Un legame unico «Odiavo giocare spalle alla porta – raccontava Lukaku a marzo al Corriere dello Sport-Stadio -. Al Chelsea Conte fu molto chiaro: ‘Se non migliori in questo, non puoi giocare per me’. Zero alternative. È stato lui a trasformare il mio punto debole in una qualità». E quella qualità, oggi, ha contribuito a riportare lo scudetto a Napoli. Non da comprimario. Ma da protagonista assoluto.