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Mourinho, lo Scomod One

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Provo a tranquillizzare tutti, tutti tranne i tifosi della Roma. Ancora poche partite e poi, a giugno, José Mourinho se ne andrà, libererà il nostro virgineo calcio della sua disturbante presenza. Le parole pronunciate mercoledì sera a Monza suonano a conferma delle intenzioni del tecnico portoghese, che da poco meno di due anni è il pilar (il pilastro) unico e riconosciuto di Trigoria. Immagino che l’addio del demonio di Setubal, che tanti pensano di aver capito e invece di lui non hanno capito una cippa, migliorerà sensibilmente la vita degli arbitri, del giudice sportivo, del procuratore federale, dei tanti moralisti in servizio permanente, degli avversari e anche - sorpresa delle sorprese - dell’Associazione Allenatori presieduta da Renzo Ulivieri, storico mangia-arbitri (ma solo sul campo) che da tempo fa parte delle istituzioni: ieri ha trasmesso un imbarazzante (opinione personale) comunicato di condanna del comportamento del collega.

"Politicamente" solo

Non sono previste sorprese, potete stare sereni: la Roma-società, come al solito, non ha mosso un dito per difendere la posizione e l’immagine dello Special. Mou è “politicamente” solo da quando è arrivato nella capitale per tentare di restituire la grandezza sportiva ai giallorossi: dalla sua parte ha esclusivamente i collaboratori, la squadra - che per lui si butterebbe nel fuoco - e, appunto, le decine di migliaia di tifosi che riempiono continuamente l’Olimpico. Lo apprezzo da sempre come tecnico, a Roma ho incontrato l’uomo, straordinario proprio per la sua miracolosa apparizione nel mondo piatto del pallone - vedi Thomas Lauren Friedman - non solo come innovatore dialettico (già sperimentato nella prima fase milanese) ma anche per l’adesione generosa alla guida quasi paterna dei giocatori e a uno spirito popolare a lui sconosciuto e subito esaltato. Mi aspettavo che da un giorno all’altro pronunciasse le tre sacre parole kennediane: «Io sono romano». Peccato. Rimpiangerà anche lui l’occasione perduta. Forse.

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