È una prova generale quella di Mourinho a Bologna. Si parte senza primi violini, e ti stupisci che i comprimari abbiano imparato la parte a memoria. Il copione dice: primo non prenderle, e i teenager giallorossi sono arroccati e corti nella propria metà campo, impenetrabili ai tentativi di Thiago di sfondare. Con Arnautovic i rossoblù sono tanto ordinati quanto ordinari, l’unico che prova a rompere la prevedibilità è Barrow, ma non è un uomo gol. Così la Roma tiene, nonostante tra la panchina, la tribuna e la televisione, a guardarla da fuori sono dieci titolari: Rui Patricio, Mancini, Smalling, Matic, Spinazzola, Dybala, Abraham, Pellegrini, El Shaarawy e Bove. Dopo due terzi di gara ti chiedi se l’ingresso graduale di alcuni di loro, e cioè Bove, Mancini, Abraham, Pellegrini e Matic, dipenda dal fatto che Mou si è accorto di poter vincere. A pensar male si fa peccato, ma ci sembra che le sostituzioni abbiano una mera funzione allenante, in vista del ritorno della semifinale di Europa League, poiché questa gara sta in cima ai pensieri del portoghese. Il resto, come l’aggancio al Milan e la stessa qualificazione in Champions, vengono dopo. Però la sua mano tocca i bambini come Missori e Tahirovic, e ne fa musicisti consumati. Eppure non hanno che diciannove e vent’anni.
Tutto questo per dire che il pari di Bologna è un racconto monotematico: parla della concentrazione assoluta su un solo obiettivo di un gruppo stregato da un guru originale, sempre un passo oltre il limite, però dotato di un fluido sconosciuto che molti farebbero le capriole per avere, e che solo lui ha. La Roma è Mourinho, non perché sia perfetta come lui dà la sensazione di sentirsi. Anzi, le incompiutezze stanno tutte lì a domandarti come abbia potuto una squadra così limitata arrivare a giocarsi obiettivi da fare la storia. Prendi Abraham, per esempio: il suo altruismo esagerato in area di rigore nasconde una rimozione: è come se l’inglese volesse scacciare dalla mente la consapevolezza che i tifosi giallorossi si attendevano da lui un canestro di gol, e quei gol non sono arrivati. Però la sua evanescenza e le altre fragilità che gli girano attorno sembrano d’un tratto declinarsi in un solo verso. Così accade che i ragazzi mostrino ai big come si sta chiusi in difesa, a protezione di quel gol di vantaggio che a Leverkusen può valere la finale. E che i big scaldino i muscoli il tanto che serve. Il loro impiego è inversamente proporzionale a quello di mercoledì: chi non ha giocato a Bologna, come Dybala, o è entrato tardi, come Matic, ha la certezza di partire titolare. Chi ieri ha iniziato starà in panchina. Ma non è detto che non servirà alla causa. Come Wijnaldum, un centrocampista che, partita dopo partita, riscopre le virtù oscurate dalla lunga convalescenza: il grande senso tattico, il dinamismo, la tecnica eccellente e, più di tutto, la voglia di provarci, cercando il tiro tutte le volte che può. Con un attacco balbettante come quello che la Roma si ritrova, un giocatore così vale oro. I quaranta minuti che Mou gli ha risparmiato potrebbero spendersi nella ripresa renana. Un dato conforta la vigilia: la personalità di due ex bambini, come Zalewski e Bove, cresciuti in fretta e in grado di mostrare la personalità che in Europa fa la differenza. La pedagogia del portoghese è per metà una selezione darwiniana, per metà un accompagnamento amorevole alla crescita e all’autonomia: chi resiste, cambia in meglio. E si vede tutto.