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Svilar il pararigori: tra fiuto e preparazione

L'estremo difensore della Roma ha deciso lo spareggio di Europa League col Feyenoord: un 'secchione' che ha divorato tomi di balistica

I rigori. Se li osserviamo dalla sponda di Francesco De Gregori - e, dunque, del tiratore - l’invito al Nino de “La leva calcistica della classe ‘68” spazza via le tempeste emotive: «Non aver paura di sbagliare un calcio di rigore, non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore. Un giocatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia». Perfetto. Ma se attraversiamo il confine del dischetto e chiediamo asilo ai portieri? Cosa cambia, ammesso che cambi qualcosa, nella visione filosofica e musicale del gesto, della sfida? Il tema lo ha rilanciato Mile Svilar, classe (a proposito) 1999, metà belga e metà serbo. Giovedì scorso, al culmine di Roma-Feyenoord di Europa League, ne ha parati due su quattro. Il cinquanta per cento. E con tuffi così perentori, alla sua destra, da suggerire la figura del secchione che ha divorato tomi di balistica, e non semplicemente scommesso su un versante. 

L'arte dell'inganno

Resiste, nell’immaginario popolare, l’idea della “lotteria”, in barba ai moniti dei saggi e alle dritte degli esperti. Mutuato dal tennis, abbiamo sdoganato e impieghiamo «tie-break», lemma più rispettoso dell’abilità che la liturgia giustifica, al di là di ogni ragionevole fazione, pro o contro l’insostenibile vaghezza dell’essere (lì, a undici metri l’uno dall’altro). L’invasione tecnologica ha ridotto l’effetto sorpresa: penso al “cucchiaio” di Antonin Panenka che decise addirittura la finale europea tra Cecoslovacchia e Germania Ovest nel 1976, a Belgrado. Nessuno sapeva di nessuno, carenza che contribuiva a favorire i trucchi psicologici. Pur accerchiata e spaventata, l’arte dell’inganno non ha perso fascino ed esercizio, come documenta lo scavetto di Francesco Totti a Edwin Van der Sar ad Amsterdam 2000. Quelli sottratti o regalati dagli arbitri entrano di prepotenza nelle classifiche delle moviole, mescolandone i rancori e le gerarchie, ma rimangono gol probabili, non gol fatti.

Da Duckadam a Svilar: fiuto e faccia tosta

Il portiere battezza un angolo e spesso anticipa la mossa, nella speranza che coincida con la traiettoria dello “sparo”. Il segreto è fissare il pallone sul gesso fino all’ultimo, senza lasciarsi influenzare dalle finte e dagli sguardi del cecchino di turno.  Vi riuscì Helmut Duckadam, la sera del 7 maggio 1986 a Siviglia, in occasione della “bella” di Coppa dei Campioni tra Barcellona e Steaua. Eccesso di zero su tutta la linea e poi la tombola adrenalinica dei penalty. Ne murò quattro su quattro, l’omone dalle mani che sembravano “badili proletari”. Il primo a José Alexanco; il secondo ad Angel Pedraza; il terzo a Pichi Alonso; il quarto a Marcos. E dal momento che Marius Lacatus e Gavril Balint, almeno loro, avevano segnato, vinse la “Stella” di Bucarest, trionfarono i guanti e i baffi di un “eroe” che avrebbe scatenato la gelosia dei rampolli di Nicolae Ceausescu. A Javier Urruticoechea detto Urruti non bastò domarne un paio. Troppo noiosa, la trama, perché il destino non bombardasse l’epilogo. Sliding doors. Da Duckadam a Svilar. Fiuto, sedere, faccia tosta: come sostiene il regista Tinto Brass, «è sempre meglio passare ai posteriori che ai posteri». 

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