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Furia Salernitana, Iervolino contro tutti: "Siamo stati calpestati". L'intervista esclusiva

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Furia Salernitana, Iervolino contro tutti: "Siamo stati calpestati". L'intervista esclusiva
Il presidente si sfoga dopo la retrocessione in Serie C: "Il calcio è un'industria senza rispetto, servono nuove riforme e regole univoche"

SALERNO (dall’inviato) - Il giorno dopo il più triste epilogo di una già complicata stagione, la rabbia fa spazio all’amarezza, alla delusione e all’incredulità. Non alla resa. Danilo Iervolino riconosce i tanti errori degli ultimi anni, tali da far sprofondare la Salernitana in C, con un Arechi balcanizzato e l’ordine pubblico a rischio. Il poliedrico imprenditore, con interessi recenti nello sviluppo dell’intelligenza artificiale, punta però l’indice anche sulle criticità che hanno contribuito a determinare questa situazione. «Salernitana-Sampdoria ha rappresentato, purtroppo, uno dei momenti più amari della nostra stagione. È doveroso da parte mia, tuttavia, sottolineare alcune situazioni che riteniamo gravi e lesive del principio di equità sportiva». Netti gli addebiti alla direzione arbitrale dell’ex internazionale Doveri, incappato in una evidente serataccia: «Episodi molto controversi: un rigore netto a nostro favore non concesso, un gol regolare annullato per un presunto tocco di mano, mentre dall’altra parte è stato convalidato un gol viziato da un fallo simile». E sugli effetti collaterali del caso Brescia, altre parole implacabili: «Si è giocato il playout un mese dopo la fine della stagione regolare, per l’attesa legata ai controlli sul club lombardo che ha stravolto tempi e preparazione, minando l’integrità della competizione. Chiedo più responsabilità, più rigore, più trasparenza. Regole uguali per tutti ed istituzioni che sappiano proteggere la credibilità del sistema... Il calcio italiano non può permettersi ambiguità». E infine la promessa che l’amara notte dell’Arechi non sarà una resa. Ma un nuovo inizio. Confidando, magari, su una maggiore condivisione della classe dirigente e imprenditoriale di Salerno. «Nessuna resa. Continueremo a lottare in ogni sede, affinché siano tutelati i diritti della Salernitana e delle società che credono in un calcio pulito, trasparente e meritocratico». Un’analisi e una promessa che il patron granata spiega così. 

Rabbia o amarezza per questa retrocessione? 

«È un misto profondo di amarezza e delusione. Non solo per la retrocessione, ma per come si è consumata. Abbiamo visto svanire anni di sacrifici, investimenti e passione. Il calcio dovrebbe premiare il merito, l’impegno, la progettualità. Purtroppo, in questa stagione, abbiamo assistito a episodi che hanno minato la fiducia nel sistema e nella sua equità». 

La gara non conclusa all’Arechi resterà per molto tempo una ferita aperta e una pagina triste per il calcio italiano, non solo per Salerno. La gente non capisce più ed esplodono le contestazioni clamorose. Tutto si tiene insieme? 

«La gara dell’Arechi è stata il punto più doloroso, perché ha mostrato una frattura tra le emozioni di una città e la freddezza delle regole. Non giustifico la violenza, mai. Ma comprendo il senso di frustrazione collettiva. Quando si perde la fiducia nel sistema, esplode l’incomprensione. E questo è un segnale d’allarme che le istituzioni calcistiche non possono ignorare. Non è un episodio isolato, è il sintomo di qualcosa di più profondo. 

Magra consolazione il fatto che la stragrande maggioranza dei tifosi di Salerno hanno contestato calciatori e sistema senza prendersela con lei? 

«È una responsabilità enorme, non una consolazione. Il fatto che tanti tifosi non mi abbiano contestato direttamente è per me motivo di rispetto e gratitudine. Ma so di aver deluso le aspettative di chi ama questa maglia. E questo pesa. Non mi sono mai nascosto, ci ho messo la faccia anche nei momenti più difficili. Ma questo affetto, silenzioso o esplicito, mi obbliga a riflettere ancora più a fondo sul futuro». 

Quel grido della Curva: “Mercenari fuori dall’Arechi” è una sentenza inappellabile. 

«È il grido di un amore tradito. I tifosi vogliono gente che sudi la maglia, che lotti fino all’ultimo secondo. Quando questo non accade, il legame si spezza. Serve rispetto per questa piazza, che non perdona chi viene qui solo di passaggio. Questo grido non va ignorato: è un punto fermo per chiunque vorrà far parte della Salernitana». 

Certo anche l’arbitraggio ha evidentemente inciso su questo playout. Incredibili gli episodi analoghi con valutazioni differenti. Crede che la Salernitana possa essere stata sconfitta anche da altro? 

«Assolutamente sì. Quando due episodi identici vengono valutati in modo opposto nella stessa partita, il dubbio non è più un dettaglio, è un grido. E se quel grido non trova ascolto, diventa rabbia. Noi siamo stati penalizzati, questo è un fatto incontrovertibile. E se perdi non solo sul campo, ma anche nelle stanze dove si dovrebbe garantire giustizia, è legittimo parlare di sconfitta doppia». 

I contenziosi sul caso Brescia hanno potuto distogliere i calciatori granata dall’importanza di questa doppia partita con la Samp e creare alibi? 

«Non voglio parlare di alibi. Ma la gestione dei tempi è stata un danno oggettivo. Fermare un campionato per un mese, in attesa di decisioni tardive, ha tolto ritmo, lucidità, motivazione. I ragazzi si sono trovati a vivere una stagione sospesa, difficile da leggere e da affrontare. Serve una riflessione seria: così si compromette la credibilità di un’intera competizione». 

Resta incredibile che un presidente navigato come Cellino possa rimanere vittima di truffatori con la terza media.  

«Preferisco non commentare vicende personali che non conosco nel dettaglio. La giustizia farà il suo corso. Io sono abituato a guardare in casa mia, a prendermi le mie responsabilità e a non cercare scorciatoie o colpe altrove». 

Come valuta il fatto che la Salernitana scenda dalla Serie A alla Serie C in due anni e società indebitate sino al collo abbiano nuove opportunità? 

«È uno dei grandi paradossi del calcio italiano. Chi impegna mezzi propri, chi rispetta i parametri, spesso si ritrova penalizzato rispetto a chi convive con situazioni debitorie fuori controllo. Il sistema premia chi sopravvive per inerzia, non chi costruisce con visione. Serve una riforma profonda, seria, non più rimandabile. Altrimenti, tanti investitori smetteranno di credere in questo sport». 

Da imprenditore vincente, lei ha approcciato il calcio italiano con spirito da innovatore, ha messo tanti soldi in questi ultimi tre anni nel movimento, combattuto distorsioni al limite della legalità e suggerito riforme non più rinviabili. Ma ne esce, almeno per ora, sconfitto. Sensazioni e reazioni? 

«È vero. Ne esco sconfitto, ma a testa alta. Ho dato tutto quello che potevo, mettendoci il cuore oltre il capitale. Ho trovato un sistema spesso chiuso, autoreferenziale, incapace di cambiare. Ho commesso errori, ma non ho mai rinunciato a credere in un calcio migliore. La sconfitta è amara, ma può essere anche un seme per ripartire. Se c’è delusione, c’è anche coscienza. E la coscienza, se non la si tradisce, ti permette sempre di rialzarti»

Ci sono stati, tuttavia, anche molti errori della sua società e del management che l’ha governata. Quali sono addebitabili a Danilo Iervolino? 

«Quando sei il proprietario, ogni decisione è tua. Ho sbagliato a fidarmi di alcune scelte tecniche, a non trovare continuità nella guida sportiva, a non costruire una base solida e lunga nel tempo. Ho ascoltato troppo chi mi diceva “servono cambiamenti” e poco chi suggeriva stabilità. Ho commesso errori, ma mai in mala fede. Sempre con il desiderio di migliorare». 

Cambiare due direttori sportivi e quattro allenatori in una stagione non è stato l’ideale. O no?

«È stato un errore evidente. La discontinuità logora, destabilizza, spezza lo spirito del gruppo. Ho pensato che intervenire fosse l’unica soluzione, invece serviva tempo e pazienza. Ne prendo atto con umiltà». 

Ma anche arrivare con 23 calciatori a scadenza, molti dei quali già sul mercato, è stato un altro effetto collaterale di una gestione non impeccabile. Non crede? 

«Sì, è un altro punto critico. Abbiamo fatto una scommessa rischiosa: cercare motivazione in chi doveva ancora guadagnarsi un rinnovo. Ma in un contesto così difficile, ha funzionato poco. Serve progettualità, una rosa che senta l’appartenenza. Questo sarà un punto cardine della ricostruzione». 

Tornasse indietro terrebbe Pippo Inzaghi in A e poi magari in B? 

«Con il senno di poi, forse sì. Ma il calcio è fatto di momenti, di pressioni, di aspettative. In quel frangente ho pensato fosse necessario cambiare. Oggi mi rendo conto che, probabilmente, la continuità avrebbe pagato di più». 

Perché non è riuscito a patrimonializzare la Salernitana con infrastrutture di proprietà? Si è sentito solo in questa impresa? 

«La verità è che mi sarei aspettato una risposta diversa dal tessuto imprenditoriale locale. Costruire infrastrutture significa lasciare un’eredità, creare valore stabile, dare casa a una passione. Ma da soli non si può fare tutto. Ho provato a stimolare energie, creare sinergie, ma ho trovato scarso entusiasmo e poca partecipazione. Serviva uno sforzo corale che non c’è stato. Non voglio accusare nessuno, ma è evidente che senza il supporto convinto di un’intera comunità economica, è difficile realizzare progetti di ampio respiro. Anche questa, purtroppo, è una lezione che porto con me». 

Immagina un rilancio o ipotizza una resa definitiva come proprietario della Salernitana? 

«Non penso affatto alla resa. Penso alla ricostruzione. Questo è il tempo della riflessione, certo, ma anche della determinazione. La Salernitana non può finire qui. C’è una ferita, ma anche una voglia profonda di riscatto. Ripartiremo con idee più chiare, con basi più solide, con scelte coerenti. A chi spera che io molli, rispondo che non ho mai amato le uscite di scena. Amo le sfide, e quella che mi attende oggi è forse la più dura, ma anche la più autentica. Perché chi ama davvero, resta. E io rimango qui per rilanciare questa maglia e questa città». 

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