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Una famiglia, la recensione del film con Micaela Ramazzotti

Il film di Sebastiano Riso è duro, a volte disturbante ma racconta una storia atroce che tutti dovrebbero conoscere, quella del mercato nero dei bambini

ROMA - Una famiglia è un film che arriva al cuore. E lo spezza, frantumandolo in mille pezzi. Il motivo è tangibile, sotto gli occhi di tutti: è cronaca. Cronaca pura. Per questo motivo il film di Sebastiano Riso (al cinema dal 28 settembre) è così bello e soffocante, perché racconta un dramma quotidiano appena toccato dai giornali, quello dell'utero in affitto e del mercato nero dei bambini. Un argomento drammatico trattato in modo onesto e sincero, senza troppi filtri.

La scena che rappresenta meglio il senso spietato di questo dramma è quando Vincent (interpretato da uno straordinario Patrick Bruel) prende il feto appena nato e ancora sporco di sangue della giovane Maria (Micaela Ramazzotti) e lo consegna senza successo alla ricca coppia omosessuale che aveva pagato per averlo. Il motivo del rifiuto è che "il neonato ha problemi cardiaci, non lo possiamo tenere".

La conseguente scelta di Vincent sul destino di questa povera creatura non si può rivelare ma è facilmente intuibile. A convincere di questo lavoro è la sapiente regia di Riso - alla sua seconda fatica dietro la camera da presa dopo il convincente esordio con "Più buio di mezzanotte" -. Le riprese indugiano in modo sincero per analizzare la triste vita di Maria, una donna che vive ad Ostia e che è ridotta ad una macchina di produzione per arricchire un mercato nero tenuto in piedi da una fortissima richiesta. Non c'è pietà, c'è poca compassione e tanto cinismo. Lucrare sulle giovani vite è forse il reato più grave di tutti. E questo film dovrebbe essere trasmesso nelle scuole, sarebbe una cruda ma necessaria lezione di vita.

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