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Veleno, la recensione del film con Salvatore Esposito

Il film di Diego Olivares è un cinico ritratto dei loschi affari nella terra dei fuochi

ROMA - Veleno è un buon film di denuncia. Racconta le vicende di una famiglia che vive nel casertano e che si ritrova a confrontarsi in una lotta impari con la criminalità organizzata che pretende di allargare i propri confini proprio lì dove è radicata da tempo l'azienda agricola dei due onesti protagonisti, Cosimo ed Ezio. I due uomini, e in seguito la moglie di Cosimo (interpretata da Luisa Ranieri), piegato da un male incurabile, rappresenteranno l'ultimo baluardo di legalità in una zona avvelenata dai rifiuti illegali. Siamo nella terra dei fuochi e qui non esiste giustizia ma solo prepotenza, disprezzo per l'ambiente e disonestà. L'analisi del regista Diego Olivares si sofferma di fronte alla difficile scelta che i due fratelli devono prendere: fermarsi e accettare i soldi della malavita o andare avanti con la battaglia fino in fondo, a prescindere dall'esito. Poi c'è il tema dell'avvelenamento della terra e la follia di pensare che i guadagni facili oggi non renderanno poi la vita impossibile alle prossime generazioni.


Ispirato a una storia vera e protagonista della Settimana della Critica della 74esima edizione della Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia, il film è spietato anche se a tratti la regia rende il prodotto un po' troppo piatto. Le intenzioni sono ottime, la resa finale non sempre all'altezza della lodevole idea di base. La presenza nel ruolo da protagonista di Salvatore Esposito (che interpreta un cinico avvocato sempre ben vestito, educato e diplomatico, lontano anni luce dallo 'sporco' Genny Savastano di Gomorra) di sicuro rende il film più appetibile ma non ne migliora il risultato. 

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