La rivincita arrivò due anni dopo, ad Atene, ancora di fronte al Liverpool di Rafa Benitez. Così come quest’anno è arrivata prima la rivincita sul Manchester City di Guardiola, seppure in fondo a due partite dove la sofferenza del Real Madrid ha raggiunto livelli incredibili, e poi sul Bayern Monaco, l’unico club che ha lasciato una traccia di delusione nei pensieri di Ancelotti. Ma quando c’è lui di mezzo sono tutte rivincite col sorriso sulle labbra. L’abbraccio al suo amico Pep e le parole che gli ha sussurrato nell’orecchio dopo aver eliminato il City si legano alle frasi dolci su Monaco di Baviera e comprensive sul club del Bayern: «Tu non sei più il mio capo, ma resti mio amico», disse a Rummenigge quando se ne andò.
Dicono che questa sua dolcezza sia il suo unico difetto. Può darsi. Troppo buono con i giocatori, dicono anche. Ma basterebbe chiedere a Shevchenko, pur amatissimo da Ancelotti, per sapere che non è proprio così. Una volta Sheva tornò a Milanello all’inizio della preparazione estiva dopo aver ritardato un’operazione allo zigomo: Carletto, che doveva partire per una tournée in America con un solo attaccante, lo affrontò a muso duro. Shevchenko, tanto per dire, non era il ragazzino della Primavera, aveva già vinto il Pallone d’Oro.
Se il suo segreto è la forza di volontà, la sua arma è l’autoironia. Quando lo vuoi sfottere, magari perché ha alzato le barricate per 90 minuti, arrivi comunque tardi, lo ha già fatto lui. Se gli vuoi dire che è facile vincere con Ronaldo, lui ti brucia e ti detta lo schema preferito di quel Real Madrid: «Palla a Cristiano e tutti a correre per abbracciarlo». È il profeta del “calcio è semplice, non è mica sparare un razzo sulla luna”, definizione di uno che gli somiglia molto, Max Allegri, pur sapendo che oltre al tatto, all’intuizione, al fiuto da spogliatoio, ci vuole anche conoscenza e ovviamente lavoro. Dissacra se stesso, non la materia che gli ha dato da vivere (e anche bene).
È fortunato, vero, però non può essere un difetto. E poi è difficile trovare qualcuno che abbia vinto così tanto senza buona sorte. È nato con Sacchi, ma dentro di sé ha un po’ Liedholm (per il gusto delle battute), un po’ Bearzot, un po’ Trapattoni e un po’ Capello (per l’attenzione della difesa). Ancelotti è la sintesi perfetta del calcio italiano che all’estero, con un tocco di snobismo e un velo di disprezzo, chiamano calcio all’italiana. La realtà è che all’estero molti sanno fare bene una sola cosa, noi sappiamo fare tante cose insieme, attaccare, difendere, contropiede, alzare e abbassare il ritmo, tenere palla e verticalizzare. Ed è per questo che Carletto in finale deve stare con gli occhi aperti: il Borussia di Terzic in fatto di conoscenze calcistiche sembra una squadra italiana, buoni giocatori resi grandi dal collettivo. La differenza di qualità è a favore del Real Madrid ma forse il nostro uomo avrebbe preferito giocare contro la spocchia dei parigini, grandi giocatori resi poveri dal collettivo. Il 1º giugno, a Wembley, ci sarà Carlo Ancelotti. L’orgoglio italiano è salvo.