Pagina 1 | Cannavaro: «Insigne è Napoli. Mancini è l’Italia»

Cannavaro: «Insigne è Napoli. Mancini è l’Italia»© AP

Il mondo è in quella palla che, rimbalzando fino in Cina, porta con sé il fascino misterioso di un’epoca surreale, tra tiranni che si prendono l’Europa e l’Italia e onirici orizzonti in cui inseguire favole o speranze. L’Inghilterra è la razza padrona d’un Vecchio Continente che è appena uscito dal dominio spagnolo e la Juventus è la Padrona d’un Bel Pese che scopre rughe e pure crepe: è successo tutto così in fretta ch’è diventato complicato riuscire a scorgere una ragione o scovare una causa - fosse anche una soltanto - di questi due Imperi ampi, vari, che hanno monopolizzato universi distanti e pure, calcisticamente, omogenei. E magari non ci vuole una lente di ingrandimento per comprendere quanti e quali perché abbiano dilatato le distanze della Juventus dall’Italia e dall’Italia dal resto d’Europa, seguire le dinamiche di questa «rivoluzione» che è diventato dominio, osservarlo con gli occhi a mandorla di Fabio Cannavaro, che setacciano l’erba per cercare un quadrifoglio che conceda ancora una speranza.

Cannavaro, visto da dentro un Pallone d’Oro, il calcio cosa le sembra?
«Che gli inglesi sono i più bravi e i più organizzati, non solo i più ricchi. Hanno una visione d’insieme che vanno ad aggiungere ad una atmosfera e a un ritmo agonistico utili a fare la differenza».

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Ancelotti per lei è un faro.
«E tale rimane. L’eredità di una squadra che aveva fatto innamorare non poteva che essere complicata. Io non avrei cambiato il sistema di gioco, ma capisco che avendo acquistato alcuni calciatori con caratteristiche diverse e poi avendo perso Hamsik, sia stato indotto a intervenire. Ma la garanzia è lui».

E Insigne, poverino, si è ritrovato nella tormenta.
«Il problema non è Insigne ma questa tendenza a cercare un capro espiatorio al primo risultato insoddisfacente. Qui vogliono vincere tutti e sempre e non si può, perché a triofare è sempre uno solo. E’ il destino dei profeti in patria o di chi cerca di esserlo. E quando si perde, parte la caccia al colpevole, inevitabilmente individuato conn il proprio concittadino».

Lei cosa farebbe al suo posto?
«Premessa: il mercato non lo fanno i giocatori, che a volte certe decisioni le subiscono. Ma io, fossi in Insigne, resterei e senza avere alcun dubbio: quella maglia, quella città, meritano di avere un simbolo. Lui sa che sarà dura, che basterà inciampare per riprovare certe sensazioni amarognole, ma ormai ci sarà abituato. E’ giovane, stia a casa sua, dove c’è anche chi gli vuole bene, e diventi il riferimento».

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La Giovane Italia di Mancini cosa le suggerisce?
«Roberto mi sta entusiasmando, per come si è posto, per la sua idea di calcio, per la ricerca di un percorso, per la fiducia accordata ai giovani. Abbiamo di nuovo un futuro, con Chiesa e Bernardeschi, con Zaniolo e due portieri che rispondono ai nomi di Donnarumma e Meret».


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Il mondo è in quella palla che, rimbalzando fino in Cina, porta con sé il fascino misterioso di un’epoca surreale, tra tiranni che si prendono l’Europa e l’Italia e onirici orizzonti in cui inseguire favole o speranze. L’Inghilterra è la razza padrona d’un Vecchio Continente che è appena uscito dal dominio spagnolo e la Juventus è la Padrona d’un Bel Pese che scopre rughe e pure crepe: è successo tutto così in fretta ch’è diventato complicato riuscire a scorgere una ragione o scovare una causa - fosse anche una soltanto - di questi due Imperi ampi, vari, che hanno monopolizzato universi distanti e pure, calcisticamente, omogenei. E magari non ci vuole una lente di ingrandimento per comprendere quanti e quali perché abbiano dilatato le distanze della Juventus dall’Italia e dall’Italia dal resto d’Europa, seguire le dinamiche di questa «rivoluzione» che è diventato dominio, osservarlo con gli occhi a mandorla di Fabio Cannavaro, che setacciano l’erba per cercare un quadrifoglio che conceda ancora una speranza.

Cannavaro, visto da dentro un Pallone d’Oro, il calcio cosa le sembra?
«Che gli inglesi sono i più bravi e i più organizzati, non solo i più ricchi. Hanno una visione d’insieme che vanno ad aggiungere ad una atmosfera e a un ritmo agonistico utili a fare la differenza».

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