Tre libri sul calcio estero e il razzismo nel pallone

Un viaggio negli stadi inglesi, le storia del Rayo Vallecano e del Qarabag; e poi il rapporto spesso poco virtuoso tra calcio e razzismo.
Tre libri sul calcio estero e il razzismo nel pallone
Massimo Grilli
5 min

Se il Mondiale russo appena finito vi ha lasciato addosso il gusto particolare del calcio internazionale, ecco tre libri molto diversi tra loro che possono interessarvi.
Cominciamo dal viaggio - tutto percorso rigorosamente in treno - che Giorgio Coluccia ha compiuto nei mesi scorsi alla scoperta degli stadi britannici. Non c’è la Londra degli squadroni, in questo libro, con i suoi tanti derby e la sua atmosfera internazionale (l’unica concessione alla capitale è lo stadio del West Ham, con annesse leggende su Anna Bolena), c’è invece il sapore del football che abbiamo sempre amato, dell’odore di birra e salsiccia che ancora anima le vie e i pub dove si radunano i tifosi prima di entrare nei loro templi, pardon nei loro stadi. Da Manchester a Leeds, da Sheffield a Glasgow, e poi Burnley, Newcastle, Swansea, Brighton… storie, curiosità, incontri con personaggi eccentrici.
Dall’Inghilterra alla Spagna. Il Rayo Vallecano è appena tornato in Primera Division, dove al massimo ha raggiunto l’ottavo posto in classifica, nel 2013. E’ la terza squadra della capitale spagnola, ma questa è la cosa meno importante per gli abitanti (o dovremmo forse dire tifosi) di Vallecas, il quartiere con il reddito pro-capite più basso di Madrid, che vivono le sorti altalenanti della loro squadra dalla maglia bianca con striscia rossa in diagonale (anche la genesi di questo abbinamento è particolare e tutto da leggere) come un simbolo dell’anima operaia e proletaria di quello che un tempo era un paese e che è diventata una delle più vaste zone dell’area metropolitana di Madrid. E’ la storia anche dei Bukaneros, gli ultrà del Rayo che fanno dell’antifascismo una ragione di vita. Come scrive l’autore del libro, il Rayo è un simbolo di resistenza e di opposizione alle storture del calcio moderno, e tifare per quei colori «è una forma di religione laica, con gesti e codici che si riproducono fedeli anche nelle nuove generazioni di tifosi».
L’ultimo libro narra la storia probabilmente più drammatica. I romanisti hanno conosciuto nei mesi scorsi le vicende sportive del Qarabag, avversario nel girone di Champions nella recente avventura europea (e decisivo nella qualificazione giallorossa, grazie ai due pareggi a cui costrinse l’Atletico Madrid) ma forse tutti non sanno cosa nasconde quella definizione di “squadra in esilio”. Semplicemente, la città di provenienza del Qarabag, Agdam, non esiste più, è stata rasa completamente al suolo durante la guerra del Nagorno-Karabakh, combattuta tra l’enclave armena di quella zona montuosa e la Repubblica dell’Azerbaigian, guerra che ufficialmente non è mai terminata. Da qui partì l’esilio del Qarabag, che prima si stabilì a Baku - dove gioca ancora le sue partite casalinghe - e ora a Quzanli, a pochi chilometri da Agdam. Questo libro, commosso e dettagliatissimo, ricostruisce le vicende di questa squadra, capace di difendersi con onore di fronte agli squadroni europei, e diventato il simbolo di un popolo che ha perso (quasi) tutto.
BINARIO 15, il calcio britannico e un viaggio in treno tra luoghi, rituali e rivalità senza tempo; di Giorgio Coluccia, Absolutely Free Editore, 153
pagine, 18 euro.
ALL’ARREMBAGGIO! Vallecas, i Bukaneros e il Rayo Vallecano: storia di un quartiere operaio, di una tifoseria di sinistra e della sua squadra di
calcio; di Quique Peinado, Hellnation libri, 73 pagine, 10 euro.
QARABAG, la squadra senza città alla conquista dell’Europa; di Emanuele Giulianelli, Ultrasport edizioni, 217 pagine, 16,50 euro.

(di Furio Zara) Lamberto Gherpelli - dopo l’eccellente “Qualcuno corre troppo - Il lato oscuro del calcio” sul doping - continua nel suo percorso virtuoso alle radici del mondo-calcio. Stavolta lo fa indagando la striscia sottile del razzismo e dell’intolleranza che da anni inquina campi, stadi, spogliatoi, bar e tutti quei luoghi deputati a quella che una volta era una passione da coltivare, oggi chissà. Lilian Thuram, uno dei più preziosi calciatori-pensanti di questi tempi moderni di panna montata e fuffa, ha scritto che «sono diventato nero a nove anni, quando sono arrivato in Francia e ho incontrato i bianchi. Si diventa neri con gli sguardi degli altri»: ed è questo il manifesto di «Che razza di calcio», libro da catalogare tra quelli utili per capire dove sta rotolando il pallone. Dagli albori fino ai Mondiali di Russia, l’autore attraversa più di un secolo di calcio provando a riannodare il filo del razzismo: tra una storia e l’altra, emerge una fotografia che inquieta, non ci diamo ragione di cosa sia successo ma - alla fine della lettura - abbiamo sicuramente in mano più strumenti per capire PERCHE’ sia successo tutto questo. Tra i capitoli più interessanti, ne segnaliamo due. Il primo è quello che riguarda il primo «Black» - ovvero il primo calciatore di colore - nel nostro paese. Siamo a Napoli, nel ’46, tra le macerie di una città da ricostruire dopo la Seconda guerra mondiale: il «black» è l’attaccante uruguaiano Roberto Luis La Paz, un gigante di un metro e 85 centimetri - altezza straordinaria all’epoca - ex del Peñarol, che in patria arrotondava facendo il camionista. Il secondo riguarda invece Luciano Vassallo, il meticcio italiano campione d’Africa: storia da film, altro che.
CHE RAZZA DI CALCIO, di Lamberto Gherpelli, edizioni Gruppo Abele, 239 pagine, 15 euro


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