Diego Lenzi, l'intervista: "Io voglio essere Cammarelle"

Emiliano, 22 anni, combattute le vertigini buttandosi da un aereo volerà a Parigi per i Giochi
Diego Lenzi, l'intervista: "Io voglio essere Cammarelle"

A chi pensa che lo sport sia solo carta da parati dell’esistenza dedichiamo la faccia cattiva e il cuore tenero di Diego Lenzi, 22 anni, che volerà a Parigi 2024 per salire sul ring dei supermassimi. «Dopo la qualifica mi sono commosso perché so la fatica che ho fatto per arrivare dove sono. Mi sto costruendo un futuro da solo». Niente è come sembra: il ring è la vita, ma per capirlo devi salirci sopra. Una volta Diego è pure scappato. «Avevo diciannove anni, fermo un anno. Facevo il cuoco, poi ho lavorato in fabbrica. Un giorno mi sono guardato allo specchio: “Ma tra dieci anni ti vuoi così?”. Ho ripreso in mano la mia vita». Non è fare a cazzotti con l’avversario a renderti più forte, è la testa. Emiliano di Porretta Terme, atleta dell’esercito, Diego ha fatto i conti con la sua. «Bisogna essere un po’ pazzi per arrivare in alto. Se hai paura di buttarti non vai da nessuna parte. Le paure si prendono di petto. Se vuoi una cosa, la fai».

Le sue paure le ha affrontate tutte? 
«Tutte non lo so. Soffrivo di vertigini, mi ero stancato. Allora con Jennifer, la mia ragazza, un giorno ho detto: “Sai cosa facciamo? Ci buttiamo da un aereo”. L’abbiamo fatto».

E sul ring non ha mai paura? 
«Ne ho molta prima di un match. Non tanto dell’avversario, ma di non fare bella figura, di non esprimermi. Per il resto, non ho paura di nessuno».

Le Olimpiadi per lei cosa rappresentano? 
«Il primo obiettivo della mia vita. Non parlo più di sogni, parlo di obiettivi. Sono già sul prossimo: vincere l’oro».

È uno sbruffone o cosa? 
«Agli occhi d’altri risulto sbruffone, forse. Perché sono sicuro di me e a volte c’è dell’invidia. Sarei sbruffone se dicessi che sono il più forte. No, io dico sempre la verità, quello che penso. Quindi se c’è un pugile più forte di me lo riconosco. Ma sono convinto che posso confrontarmi. Sono molto scientifico, oggettivo nelle cose. Anzi, a volte mi autoflagello»

E allora cosa ci vuole per vincere un oro olimpico? 
«Non lo so. Ma so quello che ci sto mettendo: passione, costanza, determinazione. Mi sono confrontato con i migliori pugili del mondo, è il mio livello, ci posso stare».

Ne parla con Cammarelle? 
«Mi piacerebbe seguire le sue orme. La strada è molto molto lunga, e insidiosa. Lui mi dà consigli».


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Come ha iniziato a boxare? 
«Giocavo a calcio, ma è uno sport di squadra e mi dava fastidio che la vittoria o la sconfitta non dipendessero solo da me. A Porretta c’era una palestra, ho iniziato a 17 anni. Il primo giorno me lo ricordo: vidi quello che poi è diventato il mio primo sparring, sentivo la paura, una sensazione di fatica, di duro lavoro. Mi piacque molto».

Chi le ha insegnato a essere così? 
«Da papà. Ex culturista, forte, muscoloso, ha un’azienda: è l’unico proprietario e l’unico dipendente, fa tutto lui. Lavorazioni metalmeccaniche particolari. Stava dalle 6 di mattina alle 8 di sera da solo. Sì, la durezza l’ho presa da lui: mai un sorriso, un abbraccio. So che è fiero di me, ma non dimostra affetto: non ricordo coccole, un abbraccio. Non ho problemi a parlarne».

E la fragilità? 
«Penso sia innata nell’essere umano, il mio punto debole sono i sentimenti. Sono buono di cuore. Però non mi commuovo tanto. E non piango mai».

La boxe toglie davvero dalla strada? 
«Sì, non è retorica. Se non avessi fatto a botte sul ring le avrei fatte per strada. Sono felice della mia scelta. Ci sono ragazzini che mi scrivono su Instagram: vogliono che chiami i genitori per convincerli a fare boxe».

E lei? 
«Gli lascio il numero. Alcuni li convinco, altri no. In Italia c’è una cultura sbagliata del pugilato. Vorrei cambiarla. Molti conoscenti sono rimasti chiusi nel vortice della strada, nelle cavolate. Fanno sempre le stesse cose, sono ancora lì».

Com’è crescere a Porretta? 
«Bello e brutto insieme. C’è poco, quindi ti sposti a Bologna. Quello è il brutto. La cosa bella è che hai il desiderio di evadere da quel buco».

Cosa si è tatuato addosso? 
«Ho cinque tatuaggi. Il primo è stato un azzardo: “Nike”, la dea della vittoria in greco dietro l’orecchio. Avevo quindici anni, ho sempre sognato di diventare un vincente. Poi ho il nome di Jennifer sul polso, la mia ragazza, mi ha insegnato tanto, e mi sta insegnando tanto. Mi tiene su. Stiamo insieme da poco, lei ha fatto un anno in Australia, io ad Assisi. Poi ci siamo incontrati di nuovo. Realizziamo i nostri obiettivi». 


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A chi pensa che lo sport sia solo carta da parati dell’esistenza dedichiamo la faccia cattiva e il cuore tenero di Diego Lenzi, 22 anni, che volerà a Parigi 2024 per salire sul ring dei supermassimi. «Dopo la qualifica mi sono commosso perché so la fatica che ho fatto per arrivare dove sono. Mi sto costruendo un futuro da solo». Niente è come sembra: il ring è la vita, ma per capirlo devi salirci sopra. Una volta Diego è pure scappato. «Avevo diciannove anni, fermo un anno. Facevo il cuoco, poi ho lavorato in fabbrica. Un giorno mi sono guardato allo specchio: “Ma tra dieci anni ti vuoi così?”. Ho ripreso in mano la mia vita». Non è fare a cazzotti con l’avversario a renderti più forte, è la testa. Emiliano di Porretta Terme, atleta dell’esercito, Diego ha fatto i conti con la sua. «Bisogna essere un po’ pazzi per arrivare in alto. Se hai paura di buttarti non vai da nessuna parte. Le paure si prendono di petto. Se vuoi una cosa, la fai».

Le sue paure le ha affrontate tutte? 
«Tutte non lo so. Soffrivo di vertigini, mi ero stancato. Allora con Jennifer, la mia ragazza, un giorno ho detto: “Sai cosa facciamo? Ci buttiamo da un aereo”. L’abbiamo fatto».

E sul ring non ha mai paura? 
«Ne ho molta prima di un match. Non tanto dell’avversario, ma di non fare bella figura, di non esprimermi. Per il resto, non ho paura di nessuno».

Le Olimpiadi per lei cosa rappresentano? 
«Il primo obiettivo della mia vita. Non parlo più di sogni, parlo di obiettivi. Sono già sul prossimo: vincere l’oro».

È uno sbruffone o cosa? 
«Agli occhi d’altri risulto sbruffone, forse. Perché sono sicuro di me e a volte c’è dell’invidia. Sarei sbruffone se dicessi che sono il più forte. No, io dico sempre la verità, quello che penso. Quindi se c’è un pugile più forte di me lo riconosco. Ma sono convinto che posso confrontarmi. Sono molto scientifico, oggettivo nelle cose. Anzi, a volte mi autoflagello»

E allora cosa ci vuole per vincere un oro olimpico? 
«Non lo so. Ma so quello che ci sto mettendo: passione, costanza, determinazione. Mi sono confrontato con i migliori pugili del mondo, è il mio livello, ci posso stare».

Ne parla con Cammarelle? 
«Mi piacerebbe seguire le sue orme. La strada è molto molto lunga, e insidiosa. Lui mi dà consigli».


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